Capitolo 12

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Marika era ferma in fondo alle scalette del pullman e aspettava impaziente che l'autista aprisse le porte. Si era beccata due gomitate nei fianchi e una e ginocchiata nella coscia, ma ce l'aveva fatta a passare attraverso la marea umana di ragazzi che occupava l'autobus troppo affollato.

Rebecca l'aveva pregata di non farsi venire a prendere da sua madre, di restare a scuola fino all'ultima ora e lei l'aveva assecondata, però aveva passato le ultime due ore a controllare l'orologio ogni cinque minuti in preda all'ansia e alla preoccupazione.

Il pullman frenò bruscamente e fu sbalzata contro il corrimano di acciaio, ma ignorò l'ennesima botta e saltò sul marciapiede non appena la porta si aprì. La casa di Rebecca distava solo pochi minuti a piedi dalla fermata e attraversò le vie del quartiere residenziale a passo svelto. Le sarebbe piaciuto correre per impiegarci ancora meno, ma bastava uno scatto di qualche metro per farle venire il fiatone. In quei momenti invidiava Rebecca che era in grado di correre per più di un'ora senza accusare la fatica.

La ragazza abitava in una piccola villetta a schiera con i mattoni a faccia vista uguale a tutte le altre abitazioni della via, strutturata su due piani e con un piccolo giardino sul davanti.

Marika suonò il campanello. Un rumore metallico scandì lo sgancio del cancello. Lo spinse con impazienza per raggiunse i due scalini che portavano al portone di legno verniciato di bianco. Come il chiavistello scattò, aprì la porta con la spalla ed entrò nell'ingresso. Le imposte del salotto e quelle della cucina erano chiuse con le stecche delle persiane posizionate in modo tale da lasciare passare solo un filo di luce. La penombra dell'ambiente, però, non era sufficiente a nascondere Rebecca seduta sul terzo gradino della scala di marmo che portava al piano superiore.

Aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e si teneva la testa tra le mani. Il completo da corsa che indossava le si era attaccato alla pelle per colpa del sudore e alcuni ciuffi erano sfuggiti dalla crocchia disordinata nella quale aveva raccolto i riccioli.

Non appena sentì il rumore della porta che si richiudeva, alzò la testa e si mise in piedi, ma Marika la raggiunse con pochi passi e la foga con cui l'abbracciò la sbilanciò all'indietro.

Per non cadere appoggiò la mano destra sullo scalino alle sue spalle e si rimise seduta portando Marika con sé.

«Sono sudata» le mormorò con un filo di voce.

«Non me ne frega niente.»

Marika aumentò la stretta intorno alla sua vita.

Rimasero abbracciate per un tempo che a entrambe parve infinito, con i cuori che battevano accelerati nella gabbia toracica.

«Mi hai fatto preoccupare tantissimo» le rivelò appoggiando la fronte contro la sua, poi le accarezzò la schiena. «Cos'è successo?»

Rebecca sospirò piano, poi incrociò lo sguardo inumidito con quello di lei. Un grumo di paura e saliva le ostruiva la gola. A malapena riuscì a formulare la frase: «Devo saldare un debito di papà».

Nella stanza calò un silenzio pesante, poi Marika si scostò per guardarla meglio negli occhi. «Cosa?»

Rebecca sospirò di nuovo e con un movimento meccanico si sciolse i capelli. Appena le ricaddero sulle spalle se li spostò sul lato destro del collo. Le tremavano le mani.

«Stamattina, quando ero in ospedale, è venuto un uomo a trovare papà. Io non l'avevo mai visto, ma mi ha detto che si conoscono per lavoro. Mi ha chiesto cosa avessero detto i medici riguardo a un suo possibile risveglio e io gli ho raccontato la verità: che non lo sanno quando si risveglierà, né se lo farà.»

Si asciugò le lacrime che non era riuscita a trattenere. «Lui allora ha tirato fuori un tablet dalla valigetta che aveva con sé e mi ha fatto vedere i resoconti di un conto bancario. Tutti i mesi mio padre gli girava dei soldi, tanti, ma l'ultima mensilità non c'era. Gli ho chiesto cosa significasse e mi ha risposto che due anni fa aveva prestato dei soldi a papà e che si erano accordati che lui glieli restituisse in cinque anni.»

Fu costretta a fermarsi di nuovo per colpa dei singhiozzi. Marika le si avvicinò per abbracciarla, ma la bloccò.

«Fammi finire, Mari... non so se ce la faccio a raccontarlo di nuovo» la implorò, poi si prese i capelli tra le mani e se li spostò dall'altro lato del collo.

«A quel punto mi ha domandato il numero di mamma, ha detto che voleva parlare con lei per chiederle di riprendere i pagamenti. Ma stiamo parlando di tantissimi soldi, Mari. Io non so neanche da dove li tirava fuori papà tutti i mesi. Mamma sicuramente non ce l'ha e non può prendersi carico anche di questo.»

Chiuse gli occhi e nuove lacrime le sfuggirono dalle ciglia abbassate.

«Da quando papà ha fatto l'incidente, mamma a malapena dorme la notte. Gli ho spiegato la situazione chiedendogli se potessimo interrompere i pagamenti per qualche mese, ma lui ha sostenuto che non è possibile; che il contratto che ha stipulato con papà è chiaro e che in caso di mancato pagamento la ditta di papà rischierebbe grosso. A quel punto sono scoppiata a piangere disperata, Mari, perché ti giuro, il cuore non mi ha retto più.»

Dopo quest'ultime parole, fu il cuore di Marika a non reggere e anche lei iniziò a piangere. Vedere Rebecca così la distruggeva, ma non la interruppe.

«Lui, allora, notando la mia reazione, si è scusato e ha detto che non aveva capito che la situazione fosse così critica, che dovevo stare tranquilla e che potevamo trovare una soluzione noi due senza coinvolgere la mamma. E io ho accettato, Mari. Non avevo altra scelta.»

Marika tremò.

«Cosa hai accettato, Rebe?»

Rebecca provò a distendere le labbra in un sorriso, ma a lei parve solo un gesto disperato per tranquillizzarla. Le si chiuse la gola.

«Mi ha proposto di aiutare uno dei suoi ragazzi a vedere... della droga, o almeno, è quello che ho capito. È stato molto vago. Il ragazzo mi contatterà per spiegarmi meglio oggi nel pomeriggio.»

L'espressione sul volto di Marika si congelò. «Rebe, ma cosa...»

Lei scosse la testa e le labbra le tremarono. «Aspetta, Mari, perché il bello non è ancora arrivato. Alla fine di tutto gli ho chiesto il suo nome e sai chi è? Sandro Menna, Mari. Il padre di Andrea.»

Doveva essere una stupida storia d'amoreWhere stories live. Discover now