37. Malware

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Didn't they tell us don't rush into things?Didn't you flash your green eyes at me?Haven't you heard what becomes of curious minds?

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Didn't they tell us don't rush into things?
Didn't you flash your green eyes at me?
Haven't you heard what becomes of curious minds?

Wonderland - Taylor Swift

Se c'era qualcosa che l'informatica mi aveva insegnato dopo anni e anni di studio, sicuramente era la totale imperfezione del cervello umano. Non mi ci era voluto molto per capire che, in realtà, quell'accumulo di milioni di neuroni fosse soltanto un insieme di infiniti errori irrisolvibili.

I processi automatici che può svolgere un cervello in pochi millisecondi sono pressoché infiniti, altamente superiori a quelli che può eseguire un computer, eppure, la nostra mente ha di fronte a sé un enorme, insormontabile ostacolo: le emozioni. Per un sistema informatico, a ogni specifica azione corrisponde una predeterminata reazione; nessun imprevisto può interporsi nella lettura di un codice se scritto correttamente: nessun brivido sulla pelle ad alterare il sistema, nessun profumo inebriante a mandare in tilt il software, nessuna scarica di ossitocina ad infiltrarsi tra i cavi elettrici.

Io, ormai, sapevo come programmare un codice in qualsiasi linguaggio informatico esistente, sapevo effettuare perfettamente una crittoanalisi ed eludere la sicurezza di qualsiasi algoritmo e protocollo crittografico, avrei potuto effettuare l'accesso a qualsiasi file criptato con soltanto l'aiuto di una piccola chiavetta USB; eppure, non ero capace di programmare in alcun modo il mio cervello e le reazioni del mio corpo ad Harry Styles.

Harry era pericolo, insidia, persuasione.
Gelo e bruciore.
Luce e ombra.
Medicina e veleno.
Tutto ciò da cui avrei dovuto tenermi più lontana e al contempo ciò che più mi attraeva. Colui che sapeva ferirmi con uno solo dei suoi sguardi affilati e al tempo stesso colui che poteva farmi sentire al sicuro soltanto avvolgendomi con le sue braccia possenti.
Un continuo controsenso.
Un demone travestito da angelo, con gli occhi chiari come frammenti di vetro e la voce melliflua come una carezza di velluto.

E io, di fronte a quella figura dalla bellezza sovrumana, di fronte a quello sguardo penetrante e a quel carattere burrascoso, mi sentivo come ostacolata da un muro invalicabile. C'era sempre qualcosa che mi bloccava, che mi impediva di arrivare a capirlo completamente. Anche quando credevo di essere giunta ad una conclusione, lui stravolgeva le carte in tavola e mi riportava a migliaia di metri di distanza dal suo cuore. Cos'era a renderlo così inarrivabile? Qual era il motivo dei suoi continui tentativi di allontanarmi?

Questo era ciò che non riuscivo a smettere di domandarmi mentre sorseggiavo dalla cannuccia il mio golosissimo frullato alla ciliegia, seduta al tavolo di un bar nel quale non mettevo piede da quando ero bambina.

Il Sunlight era un piccolo locale che si trovava sulla sessantaquattresima, a metà tra il quartiere della mia ormai distrutta villa e la mia scuola elementare. Era in una posizione perfettamente strategica per riuscire a convincere il mio papà a non portarmi a scuola al mattino: gli bastava fermarsi ad annusare il delizioso profumo delle sue amate brioche al pistacchio per lasciarsi convincere a sostare lì per una breve pausa, che finiva sempre per durare almeno tre o quattro ore. Custodivo dei ricordi meravigliosi in quel luogo, eppure non ci ero mai più tornata da quando papà aveva iniziato a dedicarsi solo ed esclusivamente al lavoro. Soltanto adesso che conoscevo tutta la verità potevo capire che in realtà avesse smesso di portarmici esattamente quando aveva iniziato ad occuparsi della piattaforma Spotlight.

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