55. Game Over

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«Luke!»

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«Luke!»

Un urlo agghiacciante mi squarciò il petto.
Il mondo sembrò crollare su di me con un peso così opprimente che le mie ginocchia cedettero, atterrando sul prato accanto al corpo di mio fratello. Mi gettai su di lui incurante del sangue che gli sgorgava dal petto, mentre le sue braccia prive di forza mi avvolgevano in un esile abbraccio. Nelle orecchie riuscivo a sentire solo i suoi rantoli agonizzanti, mentre i colpi di pistola che avevano iniziato a riecheggiare nel giardino costituivano soltanto un flebile sottofondo ovattato. Non mi importava cosa stesse accadendo attorno a noi: in quel momento c'eravamo solo io e lui.

«Sto bene, Evie» sussurrò, la voce ridotta ad una serie di ansimi profondi e irregolari. Mi allontanai quanto bastava per guardarlo in volto; le labbra violacee si sforzarono per dedicarmi un sorriso rassicurante. Le mie mani tremanti si posarono con gentilezza sul suo volto, accarezzandone le guance pallide. Le lacrime fluirono irrefrenabili dai miei occhi, mescolandosi al sangue che gli sgorgava dalla profonda ferita sul petto. Era evidente che non stesse affatto bene.

«Non puoi lasciarmi...» singhiozzai, la voce rotta dalla sofferenza. I suoi occhi, sempre più vitrei e privi di vita, incontrarono i miei. Sentii il mio cuore straziarsi: il suo sguardo dolce, rassicurante, familiare, si stava spegnendo. Luke si stava spegnendo.

«Sono qui, Evie» lui era così, era sempre stato così: persino in un momento come quello, dove sarei dovuta essere io a stringergli la mano per placare la sua sofferenza, era lui a confortarmi.

La sua immagine si fece sempre più offuscata tra le lacrime, «Avevi detto che saresti rimasto per sempre» biascicai scuotendo la testa, mentre il dolore mi prendeva a pugnalate l'anima.

Sarei dovuta essere io a prendermi quel proiettile, sarei dovuta essere io a morire. Non avrebbe dovuto proteggermi, io non lo meritavo. Era sempre stato lui il gemello buono, quello leale, coraggioso. Era stato lui il primo ad accorgersi dell'essenza crudele di nostro padre, il primo ad opporsi ai suoi ordini e alle sue idee. Non era giusto. Non poteva andare così.

«Nessuno...» un colpo di tosse gli ruppe la voce, e si portò immediatamente la mano al petto con espressione dolorante. «Nessuno muore davvero...» fu costretto ad interrompersi di nuovo, ma io avevo capito cosa volesse dire.

«...fin quando continua a vivere nei nostri pensieri» completai la frase per lui, mentre la voce mi si incrinava in un pianto disperato. Quelle parole ce le ripetevamo a vicenda da quando la mamma era andata via. Passavamo le ore a parlare di lei, a ricordarla, così da non lasciar mai che il suo ricordo morisse insieme a lei.

Gli occhi di Luke iniziarono a chiudersi e riaprirsi sempre più lentamente, come se anche quel lievissimo movimento gli costasse un enorme sforzo. Ogni istante era più straziante del precedente, eppure avrei preferito che ci fossero infiniti altri istanti uguali a quello piuttosto che dire addio a mio fratello per sempre.

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