QUARANTOTTO

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Kate sentiva sulla lingua il sapore salato del bacio che Rick aveva cercato disperatamente, non sapeva se per le proprie lacrime o per quelle di lui, ma non aveva importanza. Le loro lacrime erano uguali, nascevano dalla stessa fonte.

- Grazie. - Le disse non rinunciando ad un altro bacio. - Grazie, Kate.

Era convinto di aver fatto la scelta giusta nel portarla lì, perché solo lei aveva visto tutto di lui e solo a lei non aveva timore a mostrarsi in nessun modo. Aveva ragione, era nel suo rifugio, ma non era quel posto o quella baita, era lei, era il suo abbraccio spezzato e impaurito che sapeva però tenerlo fermo nel suo posto mondo.

Castle giocava con i capelli di Kate con la testa appoggiata sulle sue gambe, li arrotolava tra le dita e poi li lasciava andare, guardando le spirali create. Lei sembrava apprezzare quel trattamento, si godeva con gli occhi chiusi il suo morbido tocco. Erano stati fuori tutta la mattina, erano andati a fare un giro al villaggio lì vicino e poi si erano fermati per pranzo in un piccolo locale appena fuori. Avevano mangiato in abbondanza e poi si erano fatti incartare un paio di fette di torta di mele fatte in casa dalla proprietaria della locanda e le avevano mangiate a casa comodamente sul divano. Si erano ripuliti dalle briciole sporcandosi di baci, avevano riso ed avevano giocato. Poi esausti dalla camminata e dalle loro schermaglie si erano riposati adagiandosi uno sull'altro sul divano. Nessuno dei due dormiva, lo sapevano bene. Gli piaceva solo stare così, viversi quelle piccole cose che non avevano mai vissuto e così mentre con una mano Castle giocava con i suo i capelli, Kate teneva l'altra vicino al suo volto, accarezzandogli le dita.

- Ho avuto paura di diventare come mio padre. - Disse improvvisamente Kate e Rick smise di ripetere quei gesti abitudinari, come risvegliato dalle sue parole.

- Come tuo padre? - Le domandò.

- Con l'alcool. L'ho capito, sai? Credo dopo tanti anni di aver capito perché lo faceva, quella voglia di dimenticare tutto, di non sentire più il dolore, il vuoto.

- Tu non ti sei lasciata andare, però.

- No. Forse perché in fondo io non volevo dimenticarmi del dolore, lo volevo sentire, volevo farmi male e così facendo mi punivo ancora di più. Non ho mai perso del tutto la lucidità di quello che stavo facendo, sentivo quanto mi faceva male, quanto era sbagliato. E mi andava bene così. Poi ho già la mia dipendenza per quelle medicine, direi che basta, no?

- Hai sentito però anche il dottor Burke cosa ti ha detto? È questione di tempo, già va meglio no?

Castle cercava di farle coraggio. Il dottor Burke era lo psicologo dal quale era andato lui. Era una persona sincera, anche dura a volte nel dire le cose, uno di quelli che passano il tempo farti domande più che a darti risposte e Rick aveva insistito perché ci andasse a Kate. Lo aveva visto due volte prima di partire e le fece bene. Non era stato facile parlare ancora una volta di tutto quello che era accaduto, ma ogni volta le sembrava di riuscire a trovare meglio le parole. Gli aveva raccontato delle crisi di panico, degli incubi, del non voler dormire e dei suoi tentativi di isolarsi e di autodistruzione. Infine gli aveva fatto vedere tutte le medicine che gli erano state prescritte che il dottore guardò scuotendo la testa. Poi le fece una domanda che spiazzò Kate "Vuole veramente andare avanti? Si sente pronta per farlo?". Gli rispose di sì, convinta più di quando non si sentisse. Così le aveva consigliato di non interrompere immediatamente, come lei avrebbe voluto fare, tutto quello che stava prendendo, ma di diminuire gradatamente i dosaggi in modo di dare tempo al suo corpo di abituarsi al cambiamento. Il poco a poco di Kate, però, non coincideva con quello di Burke. Aveva già del tutto eliminato tutti i farmaci che prendeva in poco più di una settimana, tranne le gocce per dormire. Sentiva che non aveva più bisogno di nessun aiuto per decidere di vivere le sue giornate, per alzarsi dal letto e "fare" qualsiasi cosa volesse o dovesse.

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