TRENTATRÈ

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- Richard... Credo di aver appena fatto un grande errore. - Era così che Martha aveva iniziato la sua telefonata con suo figlio. Castle così aveva protestato perché dopo che era andato a dormire all'alba lei lo aveva chiamato di mattina per raccontargli una delle sue tante stramberie, ma quando gli disse che si trattava di Kate, Rick ebbe subito il massimo della sua attenzione. Aveva ascoltato tutto il resoconto di Martha in silenzio, annuendo, sentendosi male dentro ogni volta che sua madre le diceva quanto Beckett fosse dimagrita o come sembrava sofferente e i suoi occhi tristi. Erano stilettate che attraversavano la sua carne e brividi che lo scuotevano. Sapeva della buona fede dell'attrice, lo sentiva dalle sue parole accorate, ma non riuscì a non farsi sfuggire un mugugno di disappunto quando sentì che le aveva detto che era con Gina. Aveva poi condito il suo racconto con tutte le sue considerazioni personali sul perché lo aveva cercato, sul suo atteggiamento e su come lo cercava. Ma la cosa che più lo aveva toccato era la sua richiesta di aspettarlo. Loro avevano sempre vissuto nell'attesa, ognuno che facesse una mossa l'altro, avevano un pessimo tempismo e continuavano a dimostrarlo. Se avesse potuto avrebbe messo fine a quel viaggio subito e sarebbe ritornato a New York, a casa, da Kate. Ma l'agenda che gli avevano riempito Gina e Paula era fittissima e come gli avevano ricordato più volte prima di partire, le penali per un suo eventuale forfait sarebbero state altissime, ma non era una questione di soldi, era più il fatto che la sua casa editrice aveva investito molto in quella promozione e lui non si sentiva di tradire la loro fiducia, soprattutto dopo che gli aveva garantito la massima disponibilità. Però una cosa l'aveva fatta, aveva immediatamente chiamato Kate. Non gli aveva risposto ed allora aveva provato e riprovato tutto il giorno fino a quando poi non divenne irraggiungibile. Provò anche nei giorni seguenti a chiamarla di nuovo, ma era sempre irreperibile. Fu così che, preoccupato, chiamò Lanie che gli disse che Beckett aveva lasciato il distretto e si era dimessa e da quel giorno non aveva risposto più a nessuno, isolandosi completamente, anche con lei.

Kate non aveva risposto, non aveva nemmeno guardato chi fosse. Aveva lasciato il cellulare squillare, aveva poi tolto la suoneria e alla fine non aveva sentito più nemmeno la vibrazione. Non voleva parlare con nessuno, non voleva dare spiegazioni su quello che aveva fatto, tanto nessuno l'avrebbe capita, come per tutto il resto.
Il barman si chiamava Callum e veniva dall'Irlanda. Kate si disse che avrebbe dovuto capirlo subito da quell'accento che ancora si sentiva in alcune sfumature ma soprattutto dalla sua barba rossiccia. Dai capelli no, visto che era completamente calvo, anzi, rasato, come preferiva dire lui, che circondava la fronte con una bandana verde. Per l'Irlanda, appunto, anche se ormai viveva a New York da quasi 20 anni, arrivato poco più che adolescente. Aveva così scoperto che quel ragazzo aveva più o meno la sua età, anche se a vederlo era convinta che fosse molto più grande, forse per i tratti del viso fin troppo marcati e la barba che di certo non lo ringiovaniva.
Callum la serviva ogni sera, quando ormai per Kate era diventata abitudine andare lì. In quella parte di Manthattan non la conosceva nessuno e per lei era tanto meglio così: si sentiva più libera. La cosa che preferiva di Callum era che chiacchierava molto ma non faceva domande alle quali non aveva voglia di rispondere. Forse sapeva solo capire i clienti, perché invece vedeva molti egocentrici che non aspettavano altro che parlare di se, che erano ben felici di essere interrogati da lui e più di una volta, bevendo i suoi drink, aveva pensato che se voleva, poteva interrogarli lei. Li avrebbe fatti parlare tutti. Intanto, però, si limitava a bere. Callum aveva scoperto i suoi gusti con facilità, amava le cose forti, la vodka, soprattutto. In uno dei rari momenti in cui aveva parlato di sè gli aveva detto che aveva imparato ad amare la vodka quando aveva vissuto a Kiev e che se i suoi genitori avessero saputo quanta ne aveva bevuta e come un paio di volte si era ubriacata lì, l'avrebbero uccisa. Da quel momento Callum aveva cominciato a chiamarla "la ribelle" e a Kate faceva sorridere.
Passava lì qualche ora ogni sera, ormai. Stava bene in un posto dove non era nessuno e poteva essere chiunque volesse. I clienti, alla fine, aveva notato che erano sempre gli stessi, per lo più uomini, tra i trenta e i quarant'anni, che facevano per lo più lavori saltuari o non lavoravano per niente. In fin dei conti, poteva rientrare anche lei in questa descrizione. Le sue dimissioni erano state accettate, glielo avevano comunicato da un paio di giorni, quindi non era più ufficialmente il detective Beckett. Era solo Kate. Un altro pezzo di sè che non c'era più, che lei aveva distrutto.
In quel pub non c'erano mai tante donne, solo nei week end aveva visto qualche coppia o qualche gruppetto di amiche. Le poche donne sole che incontrava durante la settimana offrivano tutte compagnia a buon mercato. Non erano né esplicite né volgari, ma lei le sapeva riconoscere facilmente. Entravano, si sedevano in uno dei tavolini alti, ordinavano un drink e si guardavano intorno. Poi un uomo si avvicinava, chiacchieravano un po', il lui di turno pagava anche per lei e se ne andavano insieme ed il giorno dopo la stessa donna faceva la stessa cosa con un altro uomo o qualche volta anche con lo stesso. Per questo Callum le aveva detto una sera di non mettersi su quei tavoli e lei aveva seguito il suo consiglio. Così se ne stava al bancone, vicino alla cassa. In fondo a lei interessava solo bere qualcosa che le facesse dimenticare tutto per un po'. Qualche volta qualcuno l'aveva anche scambiata per una di quelle che offrivano compagnia e le aveva chiesto quale era la sua tariffa, ma il suo sguardo e le minacce di Callum avevano convinto l'avventore di turno a cambiare preda.
Dopo un paio di settimane quello che beveva non le bastava più ed ogni sera a Callum chiedeva qualcosa di più, lui riluttante provava ad accontentarla, fino a quando la vedeva superare il limite ed allora la obbligava ad andare a casa, le chiamava un taxi e così tornava al suo rifugio solitario.
Fu una di quelle sere, rientrando a casa, che scoprì che il suo appartamento non era vuoto. Quando vide l'ombra di un uomo immobile nell'oscurità ebbe nella sua confusione dovuta all'alcool un barlume di lucidità e istintivamente portò la mano sul fianco, dove sempre aveva tenuto la pistola, trovandolo spoglio.
- Katie...
Quella voce servì a tranquillizzarla inizialmente. Non era un estraneo, era suo padre. Aveva acceso la luce e lo vide con una busta della spazzatura in mano. Aveva appena raccolto i vetri di quel bicchiere spaccato la notte prima, in preda ad uno dei suoi attacchi di panico e stava buttando alcune bottiglie vuote, sparse qua e là. L'immagine di suo padre vicino ad una bottiglia di liquore vuota accese in lei una spia e riavvolse il nastro dei ricordi estraniandosi da se stessa.
- Cosa ci fai con quelle bottiglie, papà? Hai ricominciato a bere? - Gli chiese Kate con tono accusatorio mentre si chiudeva la porta alle spalle e con una mano si proteggeva gli occhi dalla luce che le sembrava troppo forte per sopportarla.
- È questo che ti preoccupa? Che io ricominci a bere?
- Ti sei rovinato con le tue mani papà.
- E tu cosa stai facendo adesso Katie? Hai allontanato gli amici, hai lasciato il lavoro, non ti fai più vedere né sentire. Hai escluso Castle dalla tua vita!
- Non parlare di Castle papà! - Rispose rabbiosa alle sue paure.
- Ok... non parliamo di Castle, ma perché ti stai facendo questo? - Jim si era seduto al tavolo ed aveva spostato una sedia per far sedere Kate che procedeva lentamente quasi avesse paura di avvicinarsi a lui.
- È solo un periodo. Poi passa.
- Lo dicevo anche io, Kate. Ma non passava mai. Non fino a quando tu...
- Non sono te, papà. Chiaro? - Gli urlò contro aggredendolo.
- Non ho detto questo.
- Io non sono te. - Ripetè volendosi convincere.
- Lo Katie. Tu sei più forte di me. Allora perché ti stai facendo questo? Stai buttando via la tua vita.
- La mia vita fa schifo.
- Katie, sei giovane, la tua vita può essere piena di cose splendide e non la devi annegare nelle cose sbagliate.
- Cose splendide? C'è uno psicopatico in giro che spara alle donne poliziotto ed io non ho potuto fare nulla per fermarlo. Sono l'unica sopravvissuta a cui ha sparato e non so perché. Montgomery è morto. Mio figlio... Castle... Non c'è più niente di importante.
- Katie...
- Sono un fallimento. Non sono riuscita in tutti questi anni a scoprire chi è che ha voluto uccidere mamma e non mi hanno permesso nemmeno di fare giustizia per un bambino ucciso da sua madre. Non sono stata in grado di proteggere mio figlio da me stessa. Cose splendide in futuro? Distruggo tutto quello che tocco, papà!
- Stai distruggendo solo te stessa Katie. - Provò a penderle la mano, ma lei si ritrasse.
- Vattene ti prego. E non tornare. Non ho bisogno della pietà né tua né di nessuno.
- Non puoi fare così. Non è giusto.
- Non sei tu nella posizione di dirmi cosa posso o non posso fare. Ti dimentichi cosa hai fatto? - Gli riversò contro tutta la sua rabbia e Jim la prese senza scomporsi.
- No, mai. Proprio per questo oggi posso dirti che stai facendo un errore. Perché lo so.
- Tu non sai niente, papà. Vattene, per favore.
Jim capì che in quel momento non poteva più fare niente. Katie si era chiusa, con il mondo e soprattutto con lui. Altre parole sarebbero state inutili. Con la morte nel cuore si alzò, passò vicino a sua figlia accarezzandole i capelli in un muto saluto ed andò via.

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