TRENTAQUATTRO

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Kate era estremamente lucida e questa era la cosa che le faceva più male. Perché non serviva alla fine nemmeno l'alcool per non pensare, per togliersi dalla mente quella voglia di autodistruggersi, per fare in modo che quello che aveva dentro corrispondesse a quello che c'era fuori di lei. Si guardava allo specchio senza riconoscersi. Pensò che se qualcuno l'avesse incontrata dopo un anno, probabilmente non si sarebbe accorto di nulla. Sì, era un po' dimagrita e non sorrideva più, ma non era una che negli ultimi anni aveva mai sorriso molto, a parte da quando Castle era entrato nella sua vita.

Forse per questo sentiva che nessuno la capiva, perché il suo dolore non era visibile. Però non voleva nemmeno essere capita, perché nessuno, in fondo, in certe situazioni ti capisce. Non sapeva nemmeno spiegare a se stessa come era arrivata a sentirsi così, con la voglia di cancellare tutto quello che era sempre stata. Non sapeva né cosa voleva, né cosa voleva essere, né quello che gli altri voleva facessero per lei. Era tutto sbagliato. Sempre e comunque. Perché si sentiva sbagliata lei.

Le serate trascorse al pub erano un tentativo si allontanare la vita, di non essere giudicata, di essere una sconosciuta piena di problemi, in un luogo pieno di altri sconosciuti pieni di problemi. Lì era una dei tanti, ognuno con i fatti suoi e nessuno a cui dover rendere conto. Però li invidiava. Invidiava la loro capacità di sbronzarsi e superare il limite della coscienza, quella cosa che a lei non era mai riuscita. Non si era mai del tutto estraniata da se stessa, aveva mantenuto sempre quel filo di lucidità che le permetteva di capire cosa stava facendo e perché questo le faceva ancora più male.

Si guardava inorridita quando tornava a casa e sentiva dentro di se tutto quello che aveva bevuto ed il più delle volte volutamente lo vomitava via. Non serviva ubriacarsi non faceva dimenticare nessun dolore e se da un lato avrebbe voluto autodistruggersi come aveva fatto suo padre, dall'altro era proprio quell'immagine che le aveva permesso di non superare mai quello che nella sua mente era il limite di non ritorno. Così stava solo male e continuava a farsi male. E non dimenticava mai niente, né perché stava male, né quello che stava facendo. Viveva in uno stato di tortura continua verso se stessa.

Anche il pub, il suo porto sicuro, svanì.

- Non credo che tu debba stare qui. - Le disse Callum una sera dopo che il suo collega le aveva versato più drink del solito e lei aveva rotto qualche barriera inibitoria, accettando le lusinghe di un tizio mai visto lì.

- Dove dovrei stare, allora? - Chiese lei ancora troppo lucida.

- A casa, da qualcuno che ti vuole bene.

- Nessuno mi vuole bene, Callum. Dammene un altro, con più vodka, non come il tuo amico che mette solo ghiaccio.

- Ho finito la vodka per te, ribelle.

Lasciò i soldi sul bancone e si avviò furiosa verso l'uscita.

- Ehy ribelle, vieni con me, ti porto in un posto qua vicino dove ti puoi divertire un po' e non ti dicono mai di no. - L'aveva già vista quella ragazza, sapeva solo che si chiamava Amanda, ma nel pub tutti la chiamavano la rossa per via dei suoi capelli tinti in modo così eccessivo. La seguì, non seppe perché. Forse il suo livello di attenzione e la sua soglia del pericolo si era solo abbassato drammaticamente, ma le andò dietro per qualche isolato, mentre catturavano fischi e proposte da più di qualche ragazzo su di giri che Amanda rispediva al mittente in modo tutt'altro che educato.

La luce rosa lampeggiante del neon fuori dall'entrata di quel locale stordì per qualche istante Kate. Poi Amanda la trascinò letteralmente dentro, dove già dall'anticamera si sentiva la musica ad alto volume.

- Ehy rossa! Oggi vieni con un'amica? - Le disse la donna a cui lasciò il suo cappotto invitando Kate a fare lo stesso, ma i look delle due donne non potevano essere più diversi.

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