-I tuoi sanno che sei qui? – quella domanda di Sylvia lo distoglie dai suoi pensieri, intento a ripiegare la sua roba ancora nelle valige, come se potesse ancora andarsene e lasciare tutto da un momento all'altro. Gela a quelle parole, si irrigidisce, il corpo pronto a risalire su un ring solo a quella domanda che gli fa male più di qualunque altra cosa: per i miei genitori sarò semplicemente morto, ma non glielo dice, non vorrebbe ferire Sylvia in quel modo, che ha sempre cercato di giustificare i suoi genitori.
-No, non voglio lo sappiano. – cerca di tagliare la conversazione mentre sistema i suoi pantaloni a palazzo bianchi nel borsone, avvertendo il tessuto morbido tra le mani per un tempo che gli pare eterno. È sicuro di averli indossati, ma sembrano passati anni da quando non li mette addosso. La sua fidanzata sospira, mentre si siede sul lato del letto del suo ragazzo, carezzandogli la spalla.
-Avete litigato, prima che tu partissi? – la luce del sole pomeridiano filtra tra le finestre ampie, facendo rilucere una linea del letto, riflettendosi sulla testiera in legno, circondato dal silenzio dei due dopo quella domanda. Trevor alza le spalle, ingoiando quel dolore.
-Sì: è l'unico momento in cui mi sono sentito parte di una famiglia, è stato un buon addio, in fondo.
-Oh, Tì, - sospira lei, inginocchiandosi accanto a lui – non dire così. – e Trevor sorride, amaro, non osa nemmeno alzare lo sguardo, non merita nemmeno di guardare i suoi occhi, sporco come si sente in quel momento, ferito come si sente da quel ricordo, dagli occhi di sua madre disgustati, dagli occhi di suo padre delusi, dalle sue parole che non avevano alcun significato tra quelle mura.

-Non pretendo tu possa capirmi, Sylvia, e nemmeno tu possa giustificarmi. Non voglio nulla di questo: mi basta tu accetti la mia scelta. Non voglio rivedere i miei. – ma Sylvia si impunta, perché per lei l'amore di una famiglia è sempre al primo posto.
-Non dire così, Tì, te ne pentirai! So che in famiglia le incomprensioni ci sono, ma-
-"Ma" cosa? – le domanda allora lui, amaramente divertito dai tentativi di lei di vedere il buono in ogni cosa. -E pensi che io non ci abbia provato? Sai cosa significa stare in una famiglia disfunzionale? – si volta a guardarla, le sorride perché sa bene che Sylvia non può capirlo, Sylvia che ha avuto una famiglia perfetta, una famiglia devota e attenta, una famiglia serena, cristiana, dedita al lavoro, dei genitori comprensivi anche nella loro severità, dei genitori con cui litigare, con cui ridere, con cui sentirsi vivi e non averne paura. -Sai cosa significa tornare la sera a casa e mangiare da soli una cena fredda da quando hai dodici anni? Sai cosa significa non vedere mai i tuoi genitori quando superi un traguardo? Puoi anche solo minimamente pensare come ci si possa sentire quando tua madre e tuo padre ti vedono solo come un'eredità per il loro lavoro? Riesci a dirmi come ci si sente quando i tuoi vogliono solo che tu replichi ogni singola cosa che hanno fatto loro alla perfezione, essere semplicemente un loro clone per i loro successi, fino al punto in cui ti prosciugano, ti tolgono la vita, le ambizioni, il senso di un futuro, il senso del tuo stesso corpo? – Sylvia indietreggia, sbiancando: Trevor non è mai stato così aspro e amaro come in quel momento, con quelle parole. Sono cocci di vetro che la investono, le parla in un modo così esasperato e stanco, come se ricordasse ogni giorno, dal risveglio fino al sonno, di quello che ha passato in quella casa. -Tu non sei stata in una famiglia dove ti stavano portando via anche la pura e semplice felicità di essere viva; tu non hai dovuto continuamente portare a casa prima di tutti gli altri dei successi, non hai mai dovuto fare dei compiti assegnati dai tuoi stessi genitori tra le lezioni al liceo, non hai dovuto studiare chiuso a chiave in un cazzo di studio claustrofobico fino alle quattro del mattino con gli occhi neri dopo gli incontri, Cristo! Cristo, Cristo, Cristo! – si rialza, afferrandosi la testa tra le mani: si sente impazzire, sente grattare il cervello contro il cranio, sente le lacrime pizzicargli gli occhi, quanto gli fa male rivedersi così debole e fragile, quanto gli fa male sentire ancora addosso quell'odio, quanto gli fa male essere vivo e voler continuare a vivere nonostante tutto. -E ogni volta, ogni singola volta che chiedi un perché, poi non ti viene mai spiegato, vieni liquidato con un semplice "perché è così, perché sì, perché siamo i tuoi genitori" come se essere un genitore possa darti il diritto di annullare la vita di un figlio! Quindi Sylvia, se non puoi capire nulla di questo, non dirmi che me ne pentirò, perché l'ultima cosa per cui proverò pentimento sarà come ho lasciato la mia famiglia. Il mio ultimo pentimento sarà per essermi voluto salvare per una volta. – si volta, le lacrime gli annebbiano la vista, lo sfogo gli toglie le forze, Sylvia lo guarda e non sa nemmeno cosa dire.

𝐃𝐄𝐒𝐏𝐄𝐑𝐀𝐃𝐎Where stories live. Discover now