La nostra storia

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Ci sedemmo all'ombra dei sempreverdi, come avevamo fatto nel corso dell'estate precedenti io e Lino, durante le pause dai nostri allenamenti quotidiani.
Guardai gli occhi di mia madre e li vidi per la prima volta vispi, come se lo spirito da giovane agonista che c'era stato in lei prima della mia nascita, fosse d'improvviso tornato ad illuminare il suo volto.
Mi sorrise, e trattenni a stento una risata. Pareva di rivedere la giovane Marta che faceva smorfie e boccacce ai fotografi dei giornali.
Sapevo che ti eri data al pattinaggio, Cosima, ma non pensavo fossi così brava.
Si sistemò su un lato e si avvicinò al mio orecchio, quasi per confessarmi un segreto.
Chi ti ha insegnato quelle tecniche? Sembra che tu abbia preso lezioni da qualcuno che se ne intende, di questo sport!
Rise, ed io feci lo stesso, tesa. Sapeva forse di Lino?
Comunque, non proferii parola ed attesi che continuasse il discorso.
Forse dovresti calzare dei pattini diversi, più adatti alla corsa. Questi non sono neanche della tua misura!
Tastò la punta dello scarponcino e l'alluce prese a farmi male. Ritrassi la scarpa, irritata, e sbuffai, come avevo visto fare innumerevoli volte a Corinne e Guglielmo.
Sai, Cosima, questi rollerblade appartenevano ad un altro ragazzo, prima che li indossassi tu.
La guardai, perplessa.
Non erano i tuoi, di quando avevi la mia età, mamma?
Scosse la testa con dolcezza, e solo a quel punto me lo rivelò: quei pattini blu con le ali bianche appartenevano ad Angelo.
Lino.
Sentii il sangue gelarmi ed il cuore parve fermarsi, poi cominciò a battere tanto forte che temetti potesse esplodere.
Sgranai gli occhi e cominciai a tremare: mia madre aveva conosciuto Lino e, per qualche strana ed ignota ragione, conservava i suoi pattini a casa nostra.
A quel punto, s'affacciarono nella mia mente, una serie di interrogativi: perché Lino non mi aveva mai riferito che quei pattini erano appartenuti a lui? E quanto tempo prima aveva smesso di usarli? Conosceva mia madre? E qual era la ragione per cui era lei a conservare i suoi pattini?
La donna, intanto, non sembrò fare caso alla mia reazione, e cominciò a fissare il vuoto.
Poi, impedendomi di proferire parola, mi raccontò la sua storia.
Il piccolo Lino aveva cominciato dalla tenera età a calzare i suoi primi pattini.
Avanzava insicuro sul manto piastrellato, riuscendo a malapena a reggersi in piedi.
Era una frana, continuava a piangere e a collezionare capitomboli, ma nonostante ciò, aveva voglia di imparare, e dopo pochi mesi era riuscito a trovare il suo equilibrio e si era cimentato ad imparare tecniche e posizioni.
Il bimbo cresceva, ed insieme a lui la voglia di pattinare sempre più velocemente si acuiva;
infine, dopo la scuola dell'obbligo, aveva scelto di fare del pattinaggio la sua più grande aspirazione.
Vinse i campionati provinciali, ma per pochi secondi non riuscì a piazzarsi alle nazionali. Da quel momento, la sua determinazione accrebbe notevolmente ed arrivò ad allenarsi ben otto ore al giorno.
Pretendeva il massimo da sé stesso, e non ammetteva sbagli. Intransigente, aveva in serbo grandi sogni per la sua carriera futura, e la piccola pista del paese sembrava non bastargli più, tanto era veloce.
I salti della partenza, gli incroci nelle curve: tutto doveva essere eseguito nel migliore dei modi.
I giovani allievi alla pista cambiavano, molti di loro crescevano ed abbandonavano i loro pattini nei ripostigli delle loro abitazioni; a poco a poco, tutti i suoi coetanei avevano trovato la loro strada, che lui aveva deciso, fin dalla tenera età, di percorrere su dei pattini in linea.
Conoscevo bene Lino, e sorrisi pensando ai discorsi che aveva fatto anche a me. Guardai il palmo della mia mano sinistra e ripercossi la linea della vita come aveva mi aveva insegnato proprio lui l'estate precedente.
Lino, l'ambizioso agonista under 16 che si allenava otto ore al giorno, era stato mio amico, ed ora mia madre mi parlava di lui.
Annuivo, ascoltando gli elogi che mamma dedicava al suo piccolo allievo, ma ad un tratto la sua voce fu rotta dal pianto.
Smisi di sorridere e la guardai, aspettando spiegazioni, che non tardarono ad arrivare.
Tra i singhiozzi, compresi che doveva sentirsi in colpa per averlo spinto a migliorare ancor di più i suoi tempi. Dopodiché, era accaduto.
La sera prima di un'importante gara per le qualificazioni, Lino e la sua istruttrice Marta erano rimasti alla pista, per perfezionare le ultime tecniche.
Lino avanzava veloce, sotto la flebile luce lunare. Attorno a loro, un silenziosissimo bosco. Poi, l'impatto.
Il giovane agonista non aveva frenato in tempo, e mentre l'allenatrice continuava ad incitarlo, urlandogli di accelerare ulteriormente, aveva raggiunto la curva quasi buia, a causa della scarsa luminosità della pista. Non si era accorto di essere arrivato alla fine del rettilineo, e la forza delle sue ruote l'aveva proiettato oltre la balaustra.
Mia madre, dopo pochi attimi di shock, aveva recuperato le sue forze ed aveva chiamato a gran voce il marito, alias mio padre, che nel frattempo attendeva nei dintorni la fine dell'allenamento per tornare a casa insieme a sua moglie.
Il ragazzo giaceva per terra, al buio, tra i rovi che circondavano la pista. Giaceva immobile, e non sembrava dare segni di vita.
A nulla era servito, poi, l'arrivo del medico: il cuore di Lino aveva smesso di battere per le innumerevoli ferite riportate al cervello, a causa del forte impatto sul terreno.
Mia madre, da quel momento, non si era più ripresa.

Il volo dell'angeloDonde viven las historias. Descúbrelo ahora