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Raggiungo l'ospedale il prima possibile.

Erre mi chiede se deve aspettarmi in auto, ma gli dico che tornerò con Mat. Ho troppa paura. La sua telefonata è stata allarmante e non ha saputo dirmi nulla sulle condizioni di suo padre.

Quando raggiungo la sala d'attesa del pronto soccorso lo vedo seduto in un angolo. La testa tra le mani.

«Ehi», dico non appena lo raggiungo. Lui scatta in piedi e mi abbraccia. «Sono qui. Ci sono io adesso», gli sussurro all'orecchio. Lui mi stringe più forte. Gli prendo il viso tra le mani e gli stampo un bacio.

Ci sediamo e gli prendo la mano.

«Cosa ti hanno detto?» chiedo senza tanti giri di parole.

«È grave. O almeno, così sembra», mi dice. «Più che altro devono vedere da quanto tempo fosse in quelle condizioni». Capisco. Sicuramente si sentirà in colpa per non essere stato a casa con lui, in quel momento. Ma poteva capitare a chiunque. Non si poteva prevedere.

«Ti hanno detto cos'è stato?»

«Sembra un ictus, lo stanno operando»

«Ci vorrà molto?»

«Non so niente», è tormentato. Si stropiccia le mani, il suo sguardo non è lucido. Vorrei tranquillizzarlo. Vorrei trovare un modo per farlo stare meglio, ma non mi viene in mente niente se non aspettare con lui.

Dopo un tempo interminabile un'infermiera ci raggiunge.

«Il paziente è stabile», dice, «La situazione è grave, ma non è in pericolo di vita. L'operazione è riuscita bene, ma dobbiamo aspettare domani mattina per i primi risultati» Mat si rilassa visibilmente al pensiero che suo padre ce l'abbia fatta. «Vi consiglio di andare a casa, farvi una bella dormita e tornare domani in tarda mattinata». Il sorriso della donna è rassicurante. La ringrazio per tutti e due e guardo Mat.

«Andiamo a casa», dico tirandolo leggermente per il braccio. Lui annuisce e mi segue docile fino al parcheggio.

IL CONFINE DI UN ATTIMODove le storie prendono vita. Scoprilo ora