41 MAT

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Facciamo un banalissimo giro del centro, come una qualsiasi delle coppie intorno a noi. Guardiamo le vetrine, parliamo del più e del meno. Cerco sempre di tenere viva la conversazione perché voglio godermi ogni attimo. Lei è spontanea. Chiacchiera liberamente e mi racconta un sacco di cose. È serena, è a suo agio. Raggiungiamo il lago e ci sediamo su una panchina. Intorno a noi c'è il buio, l'illuminazione è dispersiva. Ogni tanto passa qualcuno sul vialetto principale.

Azzardo e le prendo la mano. Sono un po' impacciato. Non ho mai dovuto corteggiare nessuno e la cosa un po' mi imbarazza, lo ammetto.

«Quando ero piccola, venivamo qui con mio padre», dice poi. «C'è un posto più avanti dove si può pescare senza dar fastidio ai turisti. Passavamo molte domeniche così»

«Veniva anche Nicole?»

«No, lei stava a casa con la mamma. Sono sempre stata io più legata a papà di quanto non lo fosse lei. Lei era più mammona», sorride al ricordo. «Anche quando i miei han divorziato, Nicole non ha sprecato un secondo provando a capire la situazione. Lo ha semplicemente condannato. È molto dura lei, o è bianco o è nero»

«Capisco», rimango pensieroso. Mi chiedo se è il caso di aprirmi con lei. Mi chiedo se è il momento di raccontarle tutto. Non voglio rovinare niente, ma lei deve sapere chi sono. E poi potrà decidere. Faccio un bel respiro.

«Mio padre se n'è andato che avevo sei anni», comincio. Mi guarda stupita, forse non si aspettava le mie spiegazioni. «Semplicemente una mattina mi sono alzato dal letto e mamma mi ha detto che non c'era più». Faccio una pausa. «Ero piccolo all'epoca e molte cose oltre a non capirle, non mi interessavano. Non mi importava sapere che era colpa di mia madre; non mi importava che lui aveva fatto di tutto per mantenere integra la nostra famiglia. Sapevo solo che era andato via e questo non potevo perdonarglielo. Mi aveva abbandonato», stringe la mia mano. «Mia mamma è sempre stata una donna strana. Una di quelle particolari, non so come dirti, hai presente gli hippy di una volta? Mia mamma era su quell'onda lì. Aveva conosciuto il suo amante a una riunione per i figli della pace o robe simili. Papà lo sapeva. Lo ha sempre saputo. Ma l'amava e se lei stava bene lui accettava. Forse, pensava, si sarebbe stancata di lui come si stancava di qualunque cosa. Poi quando mia madre gli urlò, e questo me lo ricordo, che mio fratello non era suo figlio credo lo abbia annientato come uomo. È andato via per quello. Non perché non l'amasse o non gli importasse di noi. È andato via perché l'amava così tanto che voleva darle la possibilità di vivere la vita che voleva lei. Sembra assurdo. Però se penso a che sacrificio dev'essere stato per lui, lo ammiro»

«E tu come fai a sapere tutte queste cose?», mi chiede Ele.

«Mi ha scritto una lettera, un giorno, anni fa, quando avevo quindici anni. Erano quasi dieci anni che non lo vedevo. Ogni tanto telefonava, sì, ma in quella lettera mi spiegò tutto e cambiò il modo di farmi vedere il mondo». Non mi ero mai aperto in questo modo, non avevo mai detto queste cose ad alta voce e, cavolo, se fa male!

«Una volta che mio padre è andato via, George si è insediato in casa nostra come se non aspettasse altro. Io ero un bambino, Ethan era piccolo. All'inizio le cose sembravano andare bene, poi crescendo mi sono reso conto che mi stavano tagliando fuori. Ethan aveva tutto quello che poteva desiderare, io avevo il minimo indispensabile. Mio fratello stava crescendo viziato e capriccioso. Io stavo crescendo geloso. Io ero il figlio di un altro. Loro erano una famiglia. Quell'uomo aveva fatto scappare mio padre e mi aveva rubato la mamma. Lei abbracciava Ethan, baciava Ethan, coccolava Ethan. Se io mi avvicinavo mi scacciava. Quando si sono sposati avevo dodici anni e quel giorno odiai mio padre. Lo odiai perché stava permettendo tutto questo», ci avviciniamo alla parte più dura. Adesso lei scapperà e non vorrà più vedermi. «Quando ho cominciato le medie, ho conosciuto dei ragazzi più grandi. Erano i classici bulli e all'inizio mi avevano preso di mira. Quando ho rotto il naso a due di loro, hanno capito che era meglio avermi come amico. Eravamo il terrore della scuola. Gli altri ragazzini avevano paura di noi. Ricordo che più uno aveva una bella famiglia, più mi sfogavo. La preside ha chiamato un sacco di volte mia mamma e lei a casa mi faceva picchiare da George. Lui si divertiva. Si divertiva talmente tanto che ha cominciato a picchiare anche lei. La sentivo urlare di notte. Le vedevo i lividi di giorno. Ethan era diventato un bambino chiuso, forse perché non avevamo mai sviluppato un grande rapporto e quindi non poteva confidarsi con me. Quando mamma ha perso il lavoro, io e la mia banda siamo saliti di grado e ci siamo dati ai furti. Le portavo a casa tutto quello che racimolavo, non tenevo niente, ma non volevo che lei chiedesse soldi a quell'uomo», lei continua ad ascoltarmi in silenzio. «La prima volta che sono stato dentro, è successo per una rissa. Ho fatto un occhio nero a un figlio di papà che mi ha denunciato. Niente di grave, roba di pochi giorni. Avrei anche potuto non farmeli, ma tutto era meglio che stare a casa mia. La seconda volta è andata male una rapina. Ci siamo infiltrati in un negozietto, ma le telecamere di sorveglianza ci hanno fregato. Qua mi sono fatto un po' di più, ormai ero registrato»

«E la terza volta?», mi chiede Ele. Stringo gli occhi e butto fuori il fiato. Mi stropiccio gli occhi per prendere coraggio.

«Quando ho ricevuto la lettera di mio padre con le spiegazioni, ho capito che dovevo salvare mia madre. Sì, ok, se l'era cercata perché si era invaghita di quell'uomo, ma lui le stava facendo vivere un incubo e lei non era di quelle che lo giustificava. Lei non giustificava niente, lei attaccava, gli intimava di andarsene, di lasciarci stare. Ha scritto a mio padre chiedendogli se potevo venire a stare da lui, perché aveva paura per me. Stavo prendendo una brutta strada e lei voleva salvarmi.

Un giorno sono tornato a casa e sentivo le urla di mia madre dalla strada. Sono corso dentro e ho visto mio fratello riverso per terra, il sangue gli usciva dalla bocca, era privo di sensi. Mi sono spaventato. Sono corso verso le urla e ho visto mia madre per terra, in un angolo della cucina. Aveva i vestiti strappati, era tutta sporca di sangue. George troneggiava su di lei con la cintura dei pantaloni stretta in mano, tipo frusta. Mamma continuava a gridare "il mio bambino! Il mio bambino!" credo riferendosi a Ethan nell'altra stanza. Lui l'ha afferrata per i capelli e l'ha sollevata da terra. Credevo l'avrebbe ammazzata. Ne ero sicuro, lo giuro». Sto piangendo. Mi accorgo che le lacrime scivolano sulle mie guance silenziose, ma incessanti. Sono scosso dai tremiti. Mi stropiccio le mani.

«Che cos'è successo?», mi chiede Ele.

«L'ho aggredito», singhiozzo, «Ho preso la prima cosa che mi è capitata in mano e l'ho colpito. Lui ha reagito frustandomi con la cintura. Io sono caduto a terra e lui si è avventato sopra di me. Pugni, calci, sarei morto di certo», mi porto le mani alla testa. «Mia mamma, allora, lo ha preso alle spalle con un coltello. Quelli grandi da cucina. Ho visto i suoi occhi spalancarsi per la sorpresa. Come se non potesse immaginare di perdere. Poi è piombato a terra e non si è mosso più». Ho ancora quell'immagine stampata nella mente. Eleonora è immobile vicino a me. Il suo sguardo vaga verso il lago davanti a noi.

«Quando è arrivata la polizia, forse avvisata dai vicini, e ha visto quello che era successo, mamma ha detto che io sono arrivato mentre lui stava per colpirla e l'ho aggredito, e lei per paura che mi facesse del male, appena ne ha avuta l'opportunità l'ha finito. Ha spiegato che l'ha fatto per difendersi, per proteggere i suoi figli», continuo. Ormai tanto vale dire tutto. «Sono riusciti a portarlo in ospedale che era ancora vivo. C'è stato il processo contro di me. Ero recidivo e mi hanno condannato per aggressione, con la possibilità di scontare la pena a casa. Ho accettato. Nel frattempo lui è morto, per fortuna con atroci dolori, ma mia mamma si è presa sette anni di carcere. Era legittima difesa, ma era comunque omicidio. Mio fratello è stato affidato ai nonni», ora che ho raccontato la maggior parte della storia, la parte più brutta, sono quasi sollevato. Mi sento più leggero. «Nello stesso periodo, ci ha chiamato nonna dall'Italia, dicendo che papà aveva avuto un bruttissimo incidente ed era in fin di vita all'ospedale. Ho deciso, con l'approvazione di mamma, di partire. È stato sistemato tutto col tribunale e io sono venuto qua. Avevo quasi diciotto anni e mio padre era in coma. Quando si è svegliato, non è più stato quello di prima. Aveva avuto delle lesioni, anche a seguito degli interventi chirurgici, non solo del trauma, che gli hanno compromesso la parola e parte della memoria. Abbiamo fatto un gran lavoro di riabilitazione per aiutarlo a ripristinare le sue funzioni. La camera dei ricordi gliel'ho fatta io. Gli è servita per ricostruire la sua vita. Non so quanto mio padre comprenda, o se è più o meno lucido a seconda dei casi. Ma lo amo da impazzire e darei la vita per lui, come lui ha dato la vita per me», mi volto verso Ele e vedo che lei mi sta fissando con una strana espressione.

IL CONFINE DI UN ATTIMODove le storie prendono vita. Scoprilo ora