15 ELE

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Decido di andare da Mat.

Non c'è una ragione precisa, è solo quello che voglio in questo momento. Non so cosa gli dirò, ne cosa farò, neanche se avrò il coraggio di suonare il campanello. Però voglio andare da lui.

Percorro il breve tratto di strada che separa le nostre case e raggiungo il suo cancello. Casa sua è una delle prime che costruirono da queste parti. Ha un grande giardino e, sul retro, il capannone di suo padre. Lavorano il legno o qualcosa di simile, mi ha detto Nicole. Guardo l'orologio: le dieci del mattino del ventisette dicembre. Spero che non stia lavorando o, peggio, dormendo. Quindi? Che faccio? Beh Ele, ormai sei arrivata fin qua, buttati.

Suono il campanello. E aspetto.

Passa un tempo infinito, abbastanza lungo da farmi pensare che ho fatto una stupidaggine. Quando sono già pronta a tornare indietro, la porta si apre e un uomo compare sulla soglia.

«Buongiorno, signore, cercavo Mat», urlo dalla strada. Senza rispondere apre il cancellino, e io percorro il vialetto fino all'ingresso. Quando gli sono di fronte mi tende la mano e si scosta, invitandomi ad entrare.

La cosa un po' mi agita, non vorrei che lui spuntasse fuori all'improvviso. L'uomo mi porta in cucina. È tutto perfettamente pulito e in ordine.

«Vuoi un caffè?», chiede. Ha uno strano tono di voce.

«Sì, volentieri», rispondo più per soggezione che per altro. Lui comincia a trafficare con la moka e io ne approfitto per guardarmi intorno. Quello dev'essere suo padre, ne sono convinta. Anche se non si assomigliano molto. Dev'esserci qualcosa che non va però, lo vedo dai movimenti. È come se, mentalmente, lui si ripetesse una lista di cose da fare: svitare la moka, riempirla d'acqua, prendere il caffè dallo sportello a destra, il cucchiaino dal cassetto a sinistra. È molto meccanico. Forse si diventa così a vivere molto tempo da soli.

Mi porge la tazzina e si siede davanti a me, semplicemente mi fissa. Io cerco di far finta di niente. Mat, dove ti sei cacciato?

«Hai i capelli arancioni», dice a un tratto.

«Dipende dai riflessi di luce. Preferisco dire che li ho ramati, ma se a lei piace arancione, va bene lo stesso», rispondo. Comincio ad aver voglia di andare via.

«Matthew non c'è», continua lui. Perfetto.

«Mi dispiace di averla disturbata, allora, avrà sicuramente un sacco di cose da fare», dico, alzandomi in imbarazzo.

«Rimani, non c'è problema». Rimango a fare cosa?

«Quando torna suo figlio?», chiedo.

«La prossima settimana, è andato via con gli amici». Non posso nascondere la delusione. Qualche giorno via per festeggiare il capodanno, evidentemente. Sicuramente in montagna. Chissà se ci sono delle ragazze. Ma poi, che me ne importa?

«Vuoi vedere la sua camera?», chiede poi all'improvviso.

«Ok», rispondo d'istinto. Sì, voglio vederla. Perché no? Lui non c'è giusto? E ho l'autorizzazione di suo padre per curiosare in giro. Mi accompagna per il corridoio fino a una porta.

«Io sono qui fuori, se hai bisogno», mi dice e si allontana. Mi sembra di varcare la soglia di un santuario. Per quanto potessi farmi un immagine dal poco che lo conosco, quella camera sembra quella di un comune albergo qualsiasi. Un letto, un comò con la televisione, l'armadio. Tutto di legno scuro, come le pareti, blu. In effetti è un po' cupa. Ma non c'è niente fuori posto. Niente che possa far capire a qualcuno come me, qualcosa di chi ci viva. Potrebbe essere benissimo la stanza degli ospiti. Forse Mat è un tipo molto ordinato, oppure è molto riservato, oppure, come mi aveva detto quel giorno, ha fatto fatica a vedere questa come casa sua e quindi non l'ha personalizzata. Provo a cercare la palla di neve con lo sguardo, ma non la vedo da nessuna parte. L'avrà sicuramente buttata via.

IL CONFINE DI UN ATTIMODove le storie prendono vita. Scoprilo ora