CAPITOLO 79 - PORT ELISABETH

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<<Signorina... signorina. Si svegli. Stiamo per atterrare>>.

La voce ovattata della hostess e la sua mano che mi scuoteva delicatamente una spalla mi destarono dalla sorta di letargo che mi aveva colpito appena messo piede sull'aereo. Guardai l'orologio. Quasi dodici ore erano passate in un lampo.

<<Dovrebbe riportare la poltrona in posizione verticale e allacciare le cinture di sicurezza, per favore>>.

<<Certo>>, riuscii a biascicare con la voce impastata dal sonno e gli occhi aperti a stento. Quando mi voltai, i miei compagni e colleghi infermieri erano tutt'altro che addormentati, intenti a guardare fuori dagli oblò e a commentare la nostra prima esperienza come volontari in Africa, producendo un baccano infernale.

Nella sede della Croce Rossa di Londra, quando andai ad iscrivermi al programma previsto per il Sudafrica, mi avevano detto che avevano avuto molte adesioni per quello stesso programma e per poco non ho rischiato di vedermi sfumare via la possibilità di partire. Fortunatamente c'erano ancora un paio di posti disponibili e così senza esitare ho firmato l'adesione e l'iscrizione.

Il programma integrato per la lotta all'HIV e alla tubercolosi al quale stavo per prendere parte era uno dei più importati non solo in Sudafrica, ma anche nel resto del pianeta. Centinaia di volontari ogni anno, tra medici, paramedici e infermieri ne prendevano parte, animati da un sentimento di puro altruismo che li spingeva a rischiare le loro vite per tentare di salvare quella di qualcun altro. Al pensiero che le motivazioni che avevano spinto me in quello stesso aereo non fossero propriamente così nobili, un profondo senso di colpa di serrò la bocca dello stomaco, facendo tornare prepotente la nausea che mi accompagnava già da qualche giorno. "È comunque per una buona causa",  mi ripetei, tentando di convincere me stessa.

<<Christine, bentornata tra i vivi! Dormito bene?>>. La voce squillante di Samuele mi riscosse dai miei sensi di colpa. Annuii e poi mi voltai per allacciare le cinture. Samuele era uno dei venti ragazzi facente parte del gruppo. Era italiano, ma parlava perfettamente inglese e la sua loquacità, forse anche troppa per i miei gusti, mi dava la vaga sensazione che ogni sua battuta nei miei confronti fosse solo un modo per attirare l'attenzione su di se.

Indossai di nuovo le cuffie collegate al cellulare che qualche ora prima mi avevano conciliato così bene il sonno. Quando le note di Perfect mi giunsero alle orecchie, non riuscii a trattenere le lacrime.

Harry.

Dio, quanto mi mancava. Avevo insistito per indossare una sua felpa, anche se mi stava perlomeno due volte, solo per poter tuffare il naso nel suo odore.

Lui e i ragazzi dovevano essere arrivati oramai. Erano partiti con il primo volo, la mattina prima alle 8.00, mentre il mio aereo era partito esattamente dieci ore dopo. Spostai le lancette dell'orologio secondo l'ora locale (un'ora in più rispetto a Londra) e calcolai che alle 9.00 della sera precedente il loro aeroplano doveva essere atterrato.

Un'ora più tardi mi ritrovai sul pulmino diretto a Port Elisabeth, con tutto il gruppo e con la nostra responsabile, Margareth River, una donna sulla cinquantina, grassottella e bassina, con l'incarico di addestrare i gruppi di volontari provenienti da ogni parte del mondo. Quando ci disse che parlava fluentemente otto lingue non me ne stupii affatto.

Il viaggio verso la nostra destinazione finale durò quattro ore, tanto che quando arrivammo era già sera, ma fu l'esperienza più entusiasmante di tutta la mia vita. Il paesaggio africano, con le sue mille sfaccettature e i suoi innumerevoli colori, è in grado di catturare l'attenzione del suo spettatore in un crescendo di emozioni uniche che, ne sono sicura, sono impossibili da dimenticare. "Verrà anche a me il mal d'Africa quando me ne andrò da questo posto?".

Giunti nel centro di accoglienza di Port Elisabeth, per prima cosa ci scortarono nei nostri alloggi e ci mostrarono le aree principali della struttura o per meglio dire, dei container che ospitavano il centro. Appena ebbi qualche minuto per stare da sola mi affrettai a chiamare Harry.

<<Christine, piccola!>>. Che bello sentire di nuovo la sua voce. Era ancora furioso con me per la mia decisione, a suo avviso assolutamente folle e avventata, di seguirlo in Sudafrica, se pur a diversi chilometri di distanza e al riparo in un campo della Croce Rossa. Ma nonostante tutto, la gioia di sentire che ero sana e salva trapelava dalle sue parole e presto la sua arrabbiatura andò scemando, a mano a mano che la telefonata proseguì.

Gli raccontai le mie ultime ventiquattro ore lontana da lui e a stento trattenni le lacrime, un po' per l'emozione, un po' per la nostalgia che avevo di lui. Ci accordammo per vederci il giorno successivo appena mi sarebbe stato possibile. Ci avevano spiegato sul pullman infatti, che le ore maggiormente impiegate nelle varie attività da svolgere nel campo erano quelle mattutine e del primo pomeriggio. La restante giornata e la sera erano invece libere per svolgere attività di gruppo o escursioni guidate in ospedali e altri centri di accoglienza della zona.

Per Harry invece la situazione era più complessa. Aveva qualche ora libera nei momenti più disparati, con scarso preavviso e di certo non tutti i giorni. Sarebbe stata dura ma avremmo dovuto adattarci. Fortunatamente la sera successiva aveva saputo dal suo superiore che poteva disporre di qualche ora e così appena riattaccai il telefono iniziai a contare i minuti che mi separavano da lui.

Gli alloggi per la notte, come si può immaginare, erano più che modesti ma puliti e in più dotati di veri letti, tutto sommato comodi. I bagni invece non erano altrettanto confortevoli, visto il problema che aveva il continente africano a reperire acqua. I gabinetti erano in piccoli e angusti container chimici e i locali per lavarsi erano promiscui e di acqua corrente ce n'era poca e non era disponibile a tutte le ore che la si desiderava. Ho già detto che avrei dovuto adattarmi?

Al mattino, il giorno successivo il nostro arrivo, ci fu una riunione con tutto il gruppo di volontari, la nostra responsabile e l'intero staff medico e infermieristico. Ci fecero conoscere i nostri futuri pazienti, ricoverati nel capannone adibito a ospedale da campo e ci illustrarono nel dettaglio il nostro ruolo lì. La giornata trascorse in un lampo e a stento mi resi conto che era pomeriggio inoltrato oramai e ci stavano congedando, dandoci appuntamento per la cena.

<<Allora, ti aspetto per cena. Ti tengo il posto accanto al mio>>, mi disse Samuele, mentre facevamo la fila per il bagno.

<<Ti ringrazio ma non verrò a cena con il gruppo. L'ho accennato prima a Margareth e mi ha detto che non ci sono problemi>>. "Perché mi sto giustificando con questo tizio?"

Lui rimase basito per qualche istante ma poi si riscosse. <<Come, non vieni a cena? E dove mangerai?>>.

<<Esco dal campo con... insomma mi vengono a prendere per portarmi fuori>>.

<<Chi viene a prenderti?>> Dio, com'era irritante.

<<Una persona. Scusa perché ti interessa tanto?>>. Gli avevo risposto in maniera sgarbata, ma era tremendo non poter rivelare niente di Harry e i ragazzi, e starsi a giustificare e inventare bugie in continuazione. E in più lui era invadente. E curioso.

<<Così, semplice curiosità>>. Distolse lo sguardo e iniziò a prendere a calci un sasso conficcato nella terra. Non parlammo per il resto del tempo che trascorremmo in fila che per fortuna fu poco, perché si liberarono due docce. Tentai di lavarmi come meglio potevo e di rivestirmi in fretta, per non occupare la doccia troppo a lungo.

All'uscita del bagno rividi Samuele che chiacchierava allegro con alcuni ragazzi del gruppo. Tentai di affrettare il passo per non essere vista a mia volta ma lui mi notò in quel preciso istante e mi fece un segno di saluto con la mano. Poi si voltò e insieme agli altri si incamminò verso il suo dormitorio. Io corsi nel mio per prepararmi all'arrivo di Harry.

Ma Harry quella sera non arrivò mai.

Poachers || H.S. Where stories live. Discover now