Capitolo 41 (II). Una voce

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L'immagine del Santo era ormai a un metro dai piedi di Marco e il pulviscolo, comunque, danzava ancora davanti ai suoi occhi, nascondendogli buona parte dell'altare. Egli capì che Anna gli stava chiedendo qualcosa ma anche offrendogli la parte più intima che avesse potuto dargli come un tesoro fragile da conservare, sul quale costruire le fondamenta del matrimonio che stavano per andare a concordare con il prete. «Raddrizzate i suoi sentieri», dunque, per loro, cosa poteva significare? Qual era la strada da raddrizzare per lui, per lei? Forse. . . Anna stava intendendo qualcosa di ancora più profondo, gli strinse le mani come per invitarlo ad ascoltare: ella proseguì: 

«Gattino, ecco, qui. . . arriva la parte che volevo dirti, dopo tutto questo discorso, non ti ho annoiato vero?»

Avevano ancora le mani intrecciate, ma non più con la luce che si era spostata. Gliele strinse e disse:

«No, micia, affatto. Sono qui che ti ascolto, prosegui, per favore. . . »

«Gattino. . . come ti dissi, ripresi a vivere, ma non del tutto: lo capii anche a quella festa delle debuttanti con quel Salvatore; qualcosa si era spento in me, forse per sempre? Era carino, proprio un bel ragazzo, alto, in divisa. . . » 

Marco alzò un sopracciglio, cercando di immaginarsi la scena, la sua micia con quell'abito di gala che balla abbracciata a un fusto alto più di un metro e ottanta. Anna se ne accorse e subito andò ai ripari: 

«Scusa. . . gattino, non te la prendere. . . tu non hai fatto il militare ma mi va bene così, cerca di capirmi, non è che io volessi innamorarmi di una divisa, cerca di capire una ragazza di diciannove anni che usciva per la prima volta dopo quasi dodici mesi, dopo quel che aveva passato, prova a vedere quella sera con i miei occhi. Avrebbe dovuto per lo meno attrarmi così, superficialmente. . . non dico qualcosa in più. . . ma nulla. Proprio nulla. Ballai con lui giusto perché era la festa, ci avevano accoppiati con un sorteggio, ma. . . poi basta. Capii che c'era un luogo nel mio cuore che non era più ritornato come prima. Ne ebbi la conferma nei mesi successivi, seguendo le lezioni del primo anno di medicina; ormai ero ritornata diciamo normale, come fisico, l'Anna di un tempo. Quindi. . . cominciai a fare nuovi amici che, naturalmente, non sapevano della mia tragedia passata che non dicevo a nessuno, la sapevano solo i miei amici in parrocchia, per gli altri ero una ragazza così, un po' malinconica, ma senza saperne la ragione. Avevo smesso anche gli antidepressivi, il discorso del parroco mi aveva dato la forza per uscirne. Mia madre insisteva a mandarmi ancora dallo psichiatra; ci andavo, ma non volevo più medicine. Ecco. . . qualcheduno di questi nuovi amici cominciò a farmi la corte, anche in modo gentile, mi chiese di uscire ma io non sentivo più nulla. . . non mi interessavano, anche se erano simpatici e carini. Non capivo, ma adesso è evidente la ragione: essi erano come l'Anna di un tempo che io non ero più; erano dei Siddharta ancora nel loro palazzo. Io ero dentro il palazzo, ero ancora una borghese, privilegiata, con tutto il necessario e anche il superfluo, apparentemente come loro, anch'essi figli di buona famiglia, ma io ero uscita dal palazzo, avevo visto il dolore all'esterno. Loro no, le loro strade erano ancora dritte: non avevano bisogno di me, né io di loro, e li rifiutavo.»

«E. . . però, micia. . . », Marco capì che qui ci sarebbe stato il discorso del dottore, si sentì un po' a disagio perché quella parte di Anna forse non l'avrebbe capita del tutto.

«E. . . certo, c'è un però: comunque ero una ragazza, mi faceva piacere ricevere attenzioni visto quel quasi scheletro che ero diventata e ciò che ero riuscita a ritornare; mi dava il senso di aver fatto qualcosa di buono per me stessa. Mentre avevo capito che non riuscivo più a innamorarmi perché i miei coetanei erano tutti dei principi che non avevano visto il dolore. . . gli uomini grandi, molto più grandi, in genere il dolore sapevano cosa fosse: l'avevano vissuto sulla loro pelle o no, ma erano comunque medici, praticavano da anni in corsia, sapevano le brutture, le disgrazie, i lutti che ci sono negli ospedali. Questo mi rendeva simile a loro, almeno in quell'aspetto, magari non potevano darmi amore, non volevano impegnarsi, ma neanche io lo volevo d'altra parte, li sceglievo molto più grandi apposta, non mi sentivo pronta, mi mancava una parte. . . quella parte che poi trovai in te, gattino. E sai come feci a trovarla?»

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Where stories live. Discover now