25. Il volo dello yurei

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Sarah non era mai stata coinvolta dalla frenesia che precedeva la notte di Halloween. Era cresciuta in una famiglia che non attribuiva molta importanza alle festività occidentali, anche se nel corso degli anni si erano abituati ad aderirvi per dare una buona impressione ai vicini e ai clienti del ristorante, e doveva ancora comprendere che cosa ci fosse di così eccitante nel chiedere caramelle discutibili agli sconosciuti. Eppure, la sua ostinazione a prenderne parte la faceva sentire quasi un'ipocrita. Un'ipocrita incapace di dire di no a Emily. Persino mentre camminava accanto a un ragazzo conosciuto ore prima verso la sua probabile morte, tale pensiero le suscitava una cinica ilarità.

Studiò con la coda dell'occhio John, impalato ai piedi delle scale dell'ultimo piano, il cellulare che tremolava in una mano e l'attizzatoio nell'altra. Aveva impiegato diversi minuti a convincere Keiran a unirsi alla ricerca di Alexander, e forse le sarebbe servito lo stesso tempo per persuaderlo a procedere. D'altronde, l'oscurità che li attendeva non era affatto rassicurante.

«John?» lo chiamò, ignorando il suo sussulto. «Va tutto bene, non preoccuparti.»

Il giovane scosse la testa rasata, imbarazzato per l'esitazione che lo ancorava sul posto. «Giusto, mi dispiace. Andiamo» esclamò, mangiandosi le parole dalla fretta. Posò lo scarpone sul primo gradino, ma lo scricchiolio sinistro che emise il legno sotto il suo peso fece tentennare entrambi. Si scambiarono uno sguardo colmo di ripensamenti, ma John si costrinse ad avanzare, un passo e un cigolio alla volta.

«Non scusarti, non devi vergognarti delle tue emozioni» continuò Sarah, muovendosi con attenzione dietro di lui per evitare altri suoni inquietanti, geta¹ permettendo. «È normale avere paura in una situazione del genere.»

Lo udì ridacchiare. «Lo so. Eppure mi sento così inutile. Dovrei essere io a incoraggiarti e invece... Sei davvero una roccia, Sarah.»

«Non direi. Ho paura anch'io. È solo che non mi piace esternare le mie emozioni.»

«Davvero? Credevo che fossi abituata a situazioni del genere essendo amica di Alexander.»

Quella frase la colse alla sprovvista. Da quando aveva iniziato il liceo, Sarah era sempre stata associata a Emily o al club di giornalismo e solo di recente qualcuno l'aveva riconosciuta come "la ragazza di Eric". In realtà erano entrambi troppo marginali nella piramide sociale per essere presi in considerazione. Non veniva quasi mai posta sullo stesso piano di Alexander, la cui "fama" rivaleggiava con quella di Leyla e Ren, seppur per motivi diversi. A detta di Emily, era come ritrovarsi davanti a un unicorno per poi essere brutalmente infilzati se si provava ad approcciarlo senza prima aver fatto scorta di mele. Meglio mantenere le dovute distante².

«Non siamo proprio... amiche» rispose, incerta sull'ultima parola. «Almeno, non ci frequentiamo così spesso da poterci definire intime come lo siamo con Emily, ma sopportiamo la reciproca compagnia senza chiacchiere di circostanza. E poi avrai notato anche tu che non è la persona più entusiasta con cui entrare in sintonia. Certo, non ci si annoia mai quando è nei paraggi, a condizione di sentirsi inadeguati.» Non specificò che la sua famiglia approvava la loro amicizia solo per il ceto sociale di Alexander, anche perché non era interessata a conoscere l'ammontare del conto in banca altrui.

Non ebbe modo di aggiungere altro: salito l'ultimo scalino, il secondo piano si presentò a loro in tutto il suo teatrale disuso. Sarah si coprì il naso con una manica del kimono, gli occhi già irritati dalla polvere persistente nell'aria avvizzita. Cavi scoperti, cianfrusaglie e vecchi scatoloni sparsi alla rinfusa nei dintorni proiettavano ombre inquietanti ogni qualvolta che il fascio di luce li colpiva e le finestre sbarrate rendevano l'insieme fin troppo scenico e claustrofobico. Le dita le formicolarono, ma si costrinse a non prendere appunti per ricostruire la vivida ambientazione in un futuro articolo.

When the children playDove le storie prendono vita. Scoprilo ora