19- DAVID

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La guardai allontanarsi, completamente dimentico del dolore al braccio.

«Anna» ripetei il suo nome, come una cosa dolce da assaporare. Quanta pena mi sono dato per poterla ritrovare e adesso è qui, in casa mia! pensai. Ancora non riuscivo a crederci. Mi sentivo così sollevato per averla ritrovata.

Cadendo da cavallo, avevo sbattuto forte il gomito, ma non mi ero fatto nulla di grave a parte una sbucciatura. In realtà avevo finto più dolore di quanto ne avessi provato, nel tentativo di restare più tempo possibile con lei.

In parte ci ero riuscito. Anna mi aveva medicato la ferita e avevo ancora bene impresso il calore delle sue dita sulla pelle, mentre mi sfiorava, e il suo sguardo che continuava a posarsi sul mio petto. Si era sentita in imbarazzo, lo avevo capito dal lieve rossore che le aveva imporporato le guance, ma avere i suoi occhi profondi su di me era troppo bello. Lei era troppo bella. 

Eppure era così arrabbiata... e la sua rabbia nascondeva paura, ne ero sempre più convinto. Dovevo assolutamente scoprirne il motivo.

Mi era bastato quel primo sguardo, quella volta al ristorante, per capire che era diversa da qualsiasi altra ragazza e, soprattutto, era diversa dalle persone che di solito frequentavo. C'era qualcosa in lei che mi aveva colpito. Non ne capivo la ragione, forse ero attratto da qualcosa di completamente nuovo o forse la sentivo così diversa da me, eppure così simile. Avevo l'impressione che nascondesse ferite causate da esperienze passate e quel fatto mi spingeva ancora di più a volerla conoscere.

Inoltre, Anna non sapeva nulla di me, non era a conoscenza dei miei problemi e per questo non avrebbe potuto guardarmi né con pietà né con sospetto. Ma neppure con quell'interesse lascivo che mi riservavano le ragazze con le quali, a volte, passavo una notte, ma che alle prime luci dell'alba appartenevano già al passato. Nei suoi occhi castani, oltre il velo di paura, avevo scorto soltanto gentilezza.

Il mattino seguente, mio padre scese nella sala per la colazione.

«David, cosa fai ancora qui? Non vai al lavoro, oggi?» mi chiese, vedendo che rigiravo il cucchiaino nella tazza di tè che avevo davanti, con uno sguardo che sembrava perdersi nella bevanda stessa. In realtà ero assorto.

Alzai gli occhi su di lui e nei suoi lessi preoccupazione. Sicuramente pensava che il mio comportamento fosse dettato dalla mia testa, che di nuovo la mia mente contorta stesse prevalendo su di me, sul mio essere, sulla razionalità, ammesso che ne avessi ancora.

«Ieri sono caduto da cavallo e ho sbattuto forte il braccio. Mi fa molto male e non me la sento di guidare» risposi brusco. La verità era che desideravo rivedere Anna e passare del tempo con lei. Al contrario, la prospettiva di andare in ufficio e ritrovarmi sotto il controllo di mio fratello non era molto gradevole.

«Avresti potuto andare con Henry.»

«Non volevo disturbarlo. Sono già abbastanza un peso per lui.»

«David, sai che non è così. Non lo sei mai stato.»

«Ah no? Mi riesce difficile crederlo, visto che mi hai allontanato perché ti vergognavi di me.» Rinfacciare a mio padre certe questioni era una valvola di sfogo per la rabbia che avevo dentro.

«Questo è quello che pensi tu. Non mi sono mai vergognato di te. Dovresti saperlo.»

«Invece non lo so. Non so mai cosa pensiate di me, cosa vi passi per la testa, anche se posso immaginarlo...»

«David...»

Alzai una mano per interromperlo. «Basta così. Non mi va di ascoltare i tuoi discorsi inutili.»

Mio padre sospirò, ma non aggiunse altro. Ero stanco di parole e frasi di circostanza. Ne avevo ascoltate troppe, ormai mi disgustavano. Come mi disgustava vedere nel suo sguardo la rassegnazione e il dispiacere di avere un figlio come me.

Quando mio padre uscì, iniziai a camminare avanti e indietro, in attesa che Anna scendesse per la colazione. Avevo bisogno di vederla e nemmeno io sapevo il perché. Da quando l'avevo conosciuta avvertivo come un fuoco che mi consumava internamente e che mi portava a volerla vicino. Forse perché era una persona che non aveva nulla a che fare con il mio mondo, che non era a conoscenza di ciò che ero e con la quale potevo fingere di essere normale, di sentirmi normale e non sbagliato.

Passando vicino alla finestra, scostai la tenda e guardai fuori. Anna era già in giardino, seduta su una delle panchine accanto alla fontana, intenta a scrivere qualcosa sul suo portatile. 

Mi sentii pervadere dall'euforia e da una strana sensazione che mi era estranea. Se avessi dovuto darle un nome, avrei detto felicità, sebbene non fossi avvezzo a quel sentimento. Del resto, che felicità avevo avuto io nella vita? La mia esistenza era stata un continuo alternarsi di momenti bui e momenti grigi, un'esistenza che danzava sul filo della follia, senza mai essere illuminata dai riflettori della felicità.

Rimasi per un lungo istante alla finestra, intento a osservare Anna, chiedendomi cosa nascondesse nella sua riservatezza, mentre il desiderio di raggiungerla si faceva sempre più impellente. La mia mente prese a fantasticare su di lei, immaginandomi al suo fianco e soprattutto creandomi un'immagine di lei del tutto priva di quell'ostilità che mi aveva riservato. La guardai ancora per un po'. Non sapendo di essere osservata potevo spiare ogni sua mossa, ogni sua espressione, ogni suo gesto nel modo più naturale. Il suo viso era serio e concentrato. Probabilmente la sua attenzione era completamente assorbita da ciò che stava facendo. Quanto avrei dato per sapere cosa stava scrivendo, per conoscere i suoi interessi e tutto ciò che la riguardava.

Un refolo di vento le mandò una ciocca di capelli davanti al viso e lei la soffiò via, senza staccare lo sguardo dallo schermo del computer, poi si morse il labbro, sovrappensiero.

Nonostante la distanza, vidi chiaramente quel gesto che mi rimescolò il sangue. Aveva una bocca così deliziosa che avrei voluto sperimentarla su di me.

Alla fine, non resistetti. Uscii dalla sala e mi precipitai fuori.

The Mind Owner - 1 La tua mente è miaWhere stories live. Discover now