16- DAVID

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Dire che ero oberato di lavoro sarebbe stato riduttivo. Sembrava che Henry si fosse divertito ad assegnarmi più del dovuto, senza contare il fatto che non avevo la testa per concentrarmi. Più i giorni passavano, più ero certo che mio padre avesse commesso un enorme sbaglio a volermi a lavorare alla Anderson Publishing. La mia mente era una fabbrica di pensieri che lavorava ventiquattr'ore su ventiquattro, la mia attenzione andava e veniva come le onde del mare, impedendomi di concentrarmi sul lavoro.

Sbuffai, già innervosito al pensiero di dover svolgere più di quanto riuscissi a sopportare. Chiunque avrebbe potuto definirmi un fannullone, ma non lo ero affatto. La volontà di fare era tanta, solo che non ci riuscivo. Quel lavoro avrebbe potuto anche piacermi, se solo avessi avuto la testa per svolgerlo. 

Perfino gli studi erano stati faticosi ed ero riuscito a laurearmi dopo immani sforzi. Concentrarmi sui libri era stata un'impresa e, nonostante l'impegno che cercavo di mettervi con tutto me stesso, finivo sempre per divagare, per perdermi tra mille riflessioni. E, come se non bastasse, c'erano i sensi di colpa a tormentarmi.

Tentai di concentrarmi sul presente e riuscii a rimanere attento per quasi un'ora, un record per me. Poi, però, la testa cominciò a esplodermi, mentre una raffica di considerazioni astruse cominciò a invaderla.

Mi appoggiai allo schienale della sedia e lo sguardo mi cadde sul fermacarte in alabastro a forma di volpe posato su una risma di fogli bianchi. Lo presi, lo rigirai tra le dita, poi lo posai allineandolo con il bordo dei fogli. Lo presi di nuovo e lo spostai ancora e ancora.

Perché? Mi passai una mano sul viso. Perché la mia mente deve essere così?

Mi alzai, lasciando perdere il fermacarte e ripetendomi ancora una volta che le cose erano diverse. Mi diressi verso lo scaffale che ospitava vari volumi e faldoni. Mi sentivo teso e nervoso come mi capitava sempre più spesso. Mi sentivo al limite, pronto a esplodere senza alcuna ragione apparente. Sì, perché le ragioni erano tutte racchiuse nella mia testa. Nessuno poteva vederle, soltanto io.

Cominciai a spingere ogni volume che sporgeva, in modo che fossero tutti perfettamente allineati.

Tutto succede in base alle piccole cose.

Cercai di pensare ad altro, altrimenti quella voce insidiosa mi avrebbe spinto, come una mano invisibile, nelle sabbie mobili dei miei ragionamenti cavillosi.

Alla fine il mio sguardo si posò sulla cornice che ospitava la foto di mia madre. Non era più come l'avevo lasciata, era di nuovo girata verso di me. Di sicuro era stato Henry a spostarla. Altra irritazione andò ad aggiungersi a quella che già provavo. Afferrai la cornice e fissai il bel viso di mia madre, i suoi occhi che sembravano osservarmi con delusione. Avrei voluto poterle parlare ancora una volta, chiederle scusa, ma lei non avrebbe mai potuto perdonarmi. 

Ripensai a una frase che mi era stata rivolta molto tempo prima, quando ero solo un bambino: Mantieniti lontano dalle foto perché ti faranno solo del male. Ogni tanto, però, guardale, ti rammenteranno chi sei, cos'hai fatto e il motivo della tua punizione.

Quanto erano vere quelle parole!

Posai di nuovo la foto, rimettendola voltata verso la parete, in modo da non ritrovarmi sotto lo sguardo di mia madre. Non potevo sopportarlo nemmeno sapendo che era soltanto una foto e che lei non poteva vedermi. Mi vergognavo così tanto...

«David...» La voce di mio fratello mi fece sobbalzare. «Si può sapere che stai facendo?»

«Non lo vedi? Non sto facendo niente» risposi brusco.

«E il lavoro?»

«Forse me ne hai dato troppo. Ci hai pensato?»

«Troppo?»

The Mind Owner - 1 La tua mente è miaWhere stories live. Discover now