4- DAVID

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«Potresti tornare a casa con la tua famiglia. Adesso che lavori qui, puoi smettere di rifuggire tutti quanti. Papà ne sarebbe felice e anche tutti noi.» Mio fratello Henry sembrava speranzoso.

«Preferisco restare qui» risposi brusco.

Lui sospirò, come se avesse a che fare con un bambino capriccioso impossibile da convincere. «Come vuoi. Se fossi in te, però, ci farei un pensiero. Meglio dormire in un letto che su un divano.»

Un pensiero. Se mi fossi soffermato a un pensiero, la mia mente non si sarebbe fermata a uno, ma avrebbe sfornato migliaia di pensieri contrastanti e avrei finito per impazzire.

«Ci vediamo.» Henry uscì e io mi ritrovai solo.

Non avevo mai pensato che un giorno sarei finito in quell'ufficio. Il mio ufficio.

Naturalmente, la mia mente tornò all'istante a lavorare in modo frenetico, come ogni volta che non avevo nulla con cui tenermi impegnato.

Mio padre mi aveva voluto a lavorare nella nostra casa editrice e io non sapevo ancora se avevo fatto bene ad accettare. Come poteva aver voluto un figlio problematico a lavorare alla Anderson Publishing? Ero la sua vergogna e la gente avrebbe di sicuro sparlato.

Finalmente mi ero deciso a prendere in mano la mia vita, a cercare di non farmi più manovrare da altri com'era sempre stato, a tagliare i fili della marionetta che ero diventato anni prima. Essermi sentito dire da mio padre che avrei potuto lavorare alla Anderson Publishing mi aveva fatto uno strano effetto.

Lavorare lì era stata una specie di svolta per me ma, allo stesso tempo, non sapevo se sarei stato in grado di svolgere quel lavoro.

Seduto in quello che era diventato il mio ufficio, mi guardai intorno. Era un ambiente spazioso, arredato in maniera elegante. Il mobilio in legno scuro rendeva lo spazio confortevole. Alle pareti, alti scaffali ospitavano libri e gingilli inutili, la scrivania era coperta di scartoffie, penne, graffette e altro, in una confusione che mi urtava i nervi.

Avrei dovuto mettere tutto in ordine e già sapevo che sarebbe stata un'impresa. Trovare la collocazione esatta di ogni cosa, sistemare tutto in maniera ordinata e perfetta, disporre ogni singolo oggetto nella giusta posizione...

Fai ordine nella tua mente e riuscirai a vedere l'ordine in tutto, anche nel caos più assoluto.

Scossi la testa.

No, tutto questo appartiene al mio passato, mi ripetei mentalmente. Adesso è tutto diverso.

Non volevo più essere vittima dell'ordine.

Un po' di confusione non sarà la fine del mondo, pensai. Intanto, però, non potei fare a meno di allineare un paio di penne gettate sopra una cartellina rigida di colore verde.

Chiunque avrebbe detto che ero un maniaco dell'ordine, ma avrebbe sbagliato di grosso.

Con la coda dell'occhio, notai alcuni fogli gettai alla rinfusa e subito li sistemai. Una nube di pensieri oscuri mi invase la testa, ma non mi ci soffermai. Avevo imparato a tenerli a bada, a non lasciare che prendessero il sopravvento, altrimenti sarei impazzito ancora di più.

Nel muovermi, scontrai con il gomito una penna che cadde al suolo. Mi chinai a raccoglierla e la posai sulla scrivania.

Ancora.

La ripresi e la posai di nuovo.

Un'altra volta.

No, mi rifiutai.

Scossi di nuovo la testa per scacciare quella voce e, anche se l'impulso era di riprendere la penna e posarla di nuovo sulla scrivania, mi imposi di non farlo.

Sono il padrone della mia mente, sono il padrone di me stesso e delle mie azioni, mi dissi, ma la mia mano si stava già spostando verso la penna. L'afferrai, mentre la mia rabbia saliva, e la sbattei sul legno della scrivania.

Sono libero, adesso. Non sono più succube di niente e di nessuno. Sono il padrone della mia mente e della mia vita.

Chiusi un attimo gli occhi e lasciai che l'irritazione si placasse. Quando li riaprii, mi spostai appena sulla sedia e la mia attenzione venne attratta da un portafoto in argento posato su uno scaffale, accanto a dei libri. Mi alzai e mi avvicinai.

Mia madre... la donna della foto era lei. Al momento dello scatto era sorridente e felice, poi ero arrivato io e avevo rovinato tutto. Se fosse stata ancora viva, cosa avrebbe detto di me? Mi avrebbe puntato il dito contro, accusandomi? Oppure mi avrebbe perdonato?

Ma si può perdonare quello che ho fatto? No.

Forse, in quel momento mi stava guardando e si vergognava di me, di essere mia madre, di ciò che ero diventato.

Presi il portafoto e lo voltai verso lo scaffale perché non sopportavo di vedere il viso di mia madre che sembrava fissarmi dalla cornice. Mi sarei sentito osservato e giudicato. Voltata verso lo scaffale mi dava l'impressione che non potesse vedermi.

Stupido, lei è morta!

No! Mi presi la testa tra le mani, tirandomi i capelli. Ogni volta che ci pensavo provavo un dolore sordo al petto. Se fossi stato migliore, lei sarebbe stata ancora viva. Invece, era morta per colpa mia, per tutti i dispiaceri che le avevo sempre dato. Un'altra colpa che si aggiungeva a tutte quelle che mi gravavano addosso. Davvero non ci sarebbe stata possibilità di redenzione per me?

Mi buttai sul divano. Avrei dormito lì, come facevo da un po'. Ero arrabbiato con mio padre e non mi andava di andare a casa. Inoltre, non mi sentivo bene con le persone. Vedere il sospetto negli sguardi dei miei familiari mi faceva male. Mi aveva sempre fatto male.

Chiusi gli occhi. Sentivo già un'emicrania in arrivo. Pensavo troppo. Henry me lo ripeteva spesso. Ma ogni volta che me lo ripeteva, un'altra voce si sovrapponeva alla sua.

Non pensi abbastanza. Devi riflettere sulle cose, devi riflettere prima di prendere qualsiasi decisione e prima di compiere qualunque scelta. Se non rifletti abbastanza finirai per commettere degli sbagli. La riflessione serve proprio per questo, per non errare.

Per anni non avevo fatto altro che riflettere prima di fare o dire qualsiasi cosa. Ogni volta, però, avevo sbagliato perché non avevo riflettuto abbastanza. Ancora mi chiedevo quanto fosse quell'abbastanza che mi aveva sempre perseguitato.

Mi coprii gli occhi con un braccio. Le tempie pulsavano, mentre gli ingranaggi del mio cervello lavoravano all'impazzata.

Erano passati ventuno anni. Ventuno anni di patimento, di prigionia, di colpe, da quel maledetto giorno in cui tutto era cambiato. Adesso che avevo ventinove anni, se ripensavo al tempo passato, mi mancava l'aria. Rivedevo quel ragazzino solitario che ero stato, le giornate monotone, i giochi negati, poi rivedevo il giovane complicato che ero diventato.

È colpa tua. Tutta colpa tua.

Tolsi il braccio da sopra gli occhi e mi passai una mano sulla fronte. Dovevo smetterla, dovevo tenere alle spalle i ricordi. Adesso era tutto diverso, ero libero.

Non sarai mai libero. Non c'è possibilità di libertà per te dopo quello che hai fatto. Devi espiare per tutta la vita se vuoi cancellare la colpa che ti porti addosso.

Mi misi a sedere. Il mio respiro accelerò leggermente, proprio come mi succedeva ogni volta che quei ricordi venivano a tormentarmi. Cercai di spostare il pensiero sul presente. Adesso lavoravo insieme a mio fratello. Era stato difficile prendere quella decisione, ma alla fine l'avevo fatto. Chissà se avevo riflettuto abbastanza?

The Mind Owner - 1 La tua mente è miaDonde viven las historias. Descúbrelo ahora