42. Golden killer

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Sara tremava. Non era di freddo, né di paura, né di una vera, autentica rabbia... anche se era un sentimento davvero simile alla rabbia, una specie di voglia di distruggere animalesca. Aspettava che Paul le dicesse che cosa doveva fare, ma l'attesa era una tortura, come un prurito dentro le carni, vicino alle ossa, che non poteva essere alleviato se non con l'azione.

La luna era piena sopra la sua testa, un cerchio perfetto che spandeva una luce quasi accecante per i suoi occhi così ben adattati al buio. I contorni delle cose sembravano dipinti con l'argento, gli alberi erano fiaccole dalle punte di fuoco bianco all'orizzonte.

Una strada sterrata attraversava la campagna, larga abbastanza da farci passare due autocarri affiancati, ma piena di piccole pozze acquitrinose. I grilli cantavano.

Sara stava acquattata dietro un muretto a secco non ancora ultimato, tremando. Paul invece era seduto sul ciglio della strada e sbucciava delle pere con un coltellino svizzero, mangiandone poi lentamente una fettina dietro l'altra.

«Un po' di pazienza» Borbottò Paul, quando sentii un uggiolio basso provenire da dietro il muretto.

Sara attese per quelli che le sembrarono mille anni, grattando piano il terreno. Ormai era abituata ad avere unghie che sembravano fatte di selce, lunghe cinque centimetri... quello a cui non era mai riuscita ad abituarsi era l'attesa.

Ed ecco, finalmente, udì il rumore di un motore. Drizzò le orecchie, leccandosi le labbra, e represse un uggiolio di eccitazione. Azione, azione, azione.

«Aspetta...» Le disse Paul, senza neppure girarsi verso di lei, continuando a mangiare le sue pere «... Prima devono vedermi».

Un mezzo avanzava lungo la strada. L'udito finissimo di Sara, e la sua vasta conoscenza di quel tipo di automezzi, le permisero di distinguere immediatamente che si trattava di un Chevrolet 3100, un camioncino a pianale piuttosto diffuso da quelle parti. Insieme al rumore del motore, iniziava a percepire anche un dialogo, delle voce di uomini che ridevano. Erano tutti maschi, e lei lo seppe non solo per le voci, ma anche perché il vento le portava i loro odori e sapevano tutti di testosterone e sudore. Le ragazze che conosceva lei, almeno, si mettevano il deodorante che diamine! O si lavavano.

A bordo del Chevrolet 3100, che era stato dipinto con colori mimetici, c'erano effettivamente quattro uomini. Erano tutti armati, anche se solo due di loro portavano a tracolla dei lustri fucili da caccia. Stese sul retro del pick-up c'erano le pelli di sette lupi, ancora sanguinanti. Erano state strappate con maestria da animali maestosi, con pellicce grigie, nere e bianche, alti più di ottanta centimetri alla spalla. In Texas, però, non c'erano animali come quelli: lì i lupi erano più piccoli, di colore fulvo-rossiccio, e morfologicamente più simili ad un coyote rispetto ai loro parenti del grande Nord. La verità era che quelle pelli di lupo non appartenevano a veri lupi, ma ai maschi di un intero clan di licantropi nativi, uccisi e scuoiati per vendere i loro bellissimi manti, molto più costosi di quelli dei lupi locali.

C'erano proiettili d'argento, nei fucili dai caccia degli uomini.

Erano quattro assassini, ben consapevoli di aver ammazzato delle persone solo per profitto. Ma per loro, cosa contavano le vite di sette pellerossa mutaforma? Niente.

«Le femmine sono uscite con i cuccioli stanotte» Disse il conducente dell'auto, divertito «Con la luna piena gli stanno insegnando a cacciare, quelle squaw-cagne. Ve le immaginate?»

«Ma appena sentiranno l'odore del sangue dei maschi...» intervenne un secondo, un biondino allampanato con le orecchie a sventola e una croce celtica tatuata sull'avambraccio «Bam! Ci correranno dietro. E bam, bam! Altra roba buona, eh? Saranno anche dei mostri, ma questo branco ha pellicce di prima qualità. Quasi quasi una femmina me la tengo, non la vendo, ci faccio un cappotto per la mia ragazza e dovrà sposarmi per forza, no?»

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