38. La notte e l'Italia

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Mark si sentiva soffocare. Non sapeva se quel caldo era naturale, un'improvvisa afa notturna, o se era perché il suo corpo stava in qualche bizzarro modo combattendo la sofferenza. Stava coricato su un fianco, per non pesare sulle frustate o sul taglio sul petto, e cercava di non fare rumore mentre respirava disperatamente, assimilando più aria che poteva. Era stanco all'inverosimile, ma non riusciva ad addormentarsi.

"E se usassi la magia per guarirmi da solo? Non è un rituale troppo difficile... ma no. No, se lo faccio mio fratello e Sara se ne accorgeranno. Mi hanno visto tutti, non posso fare finta di stare bene"

"E se cancellassi la loro memoria riguardo ai fatti di ieri? Ma no, non sono bravo a cancellarli in modo selettivo, e se gli facessi scordare della minaccia incombente di Maverick, rischierebbero di andare a buttarsi dritti dritti in qualunque sua trappola. Quel folle di Lennart li ucciderebbe entrambi, perché entrambi non saprebbero che è un pericolo"

"E se stanotte uscissi? Se andassi a cercare Lennart, se... se..."

Troppi pensieri ronzavano nella sua testa. Di tanto in tanto, quando chiudeva gli occhi, sentiva passi fantasma nella stanza e si guardava intorno cercando di vedere qualcosa che non c'era.

Rotolò giù dal letto, sdraiandosi sul pavimento nella speranza che fosse più fresco. Non lo era. Un fuoco consumava dentro il ragazzo, un incendio inestinguibile.

Scese al piano di sotto, bevve e si bagnò il collo. Si sentiva come in un limbo, indeciso sul da farsi. Non poteva dormire, ma anche solo muoversi gli faceva male. Timothy aveva preso un antidolorifico, lui aveva rifiutato: quella robaccia gli scombussolava sempre lo stomaco e gli dava gli incubi. Ma ora non era più tanto certo che fosse stata la scelta migliore. Gli incubi sarebbero venuti lo stesso.

"Gli incubi, non c'è un incantesimo per fermarli, vero? E anche se ci fosse, Paul non me l'ha insegnato".

Portò da bere ai prigionieri legati alla staccionata e senza dire niente li portò uno alla volta in bagno. Si prese cura di loro, ma non rispose a nessuna delle loro domande né suppliche: era come sordo alle loro voci, come se non fossero parole umane, ma versi animali. Accarezzò Jacob sulla testa prima di legarlo di nuovo, più strettamente ancora. Lo sentì piagnucolare, ma non ci fece caso: quel piagnucolio non interferiva con il suo dolore, con la sua ansia e con i suoi pensieri, né nel bene, né nel male.

Quando fu slegato, Orson provò a scappare, ma Mark lo immobilizzò spingendolo con una mano contro la staccionata e lo minacciò con voce dolce.

«Shh... non provarci... non provarci o dovrò ucciderti».

Orson ci credette, impressionato da quella forza, e rimase immobile. Mark lo condusse in bagno, poi legò di nuovo anche lui al suo posto.

Il cielo sopra le loro testa era un'immensa trapunta di stelle. In lontananza si udì il grido di un coyote. Mark si portò una mano al petto, che bruciava ancora, anche se molto meno di prima.

Il giovane McWoodland sapeva che non sarebbe mai riuscito a dormire, così sellò Rasputin e lo cavalcò senza meta. Ad ogni passo del cavallo, una fitta sorda si propagava in lui, ma era un dolore quasi rassicurante, paragonato alla sensazione di soffocare che il ragazzo aveva avuto a letto.

Ascoltò il respiro del vento, che pareva una cosa viva mentre frusciava fra i filari di alberi e accarezzava gli scheletri gialli dell'erba, come l'ansito di un drago addormentato.

Poi vide un ragazzo. Era seduto contro il tronco di un albero morto ed indossava una divisa da poliziotto. Aveva lo sguardo perso nel vuoto, i capelli corti e neri, le mani posate sulle ginocchia.

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