39. Le parole dei poliziotti

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Erano le cinque del mattino.

Il telefono squillò da dentro il suo supporto di carica sul comodino, sgradevole, e Sara pensò che se in futuro avessero voluto vendere più cellulari tutto quello che avrebbero dovuto fare era offrire suonerie più gradevoli di quella.

«Pronto?»

«Sara» Disse la familiare voce di Richard «Ci vediamo questa sera, alle sei. Porta lui»

«Alle sei» ripeté lei, improvvisamente molto sveglia.

Richard chiuse la conversazione. Lei sapeva che lui aveva paura di un'eventuale intercettazione dalla chiamata.

Si vestì, si lavò e uscì portando con sé una pistola, un coltello e il telefono portatile. Non sarebbe rimasta a fare colazione con i fratelli McWoodland, si sarebbe resa irreperibile e loro non avrebbero saputo a che ora ci sarebbe stato l'incontro con Maverick. Prese in prestito la macchina di Timothy e partì, diretta in città.

Quando alle sette e mezza Timothy si svegliò, sentì un forte dolore al petto e una brutta sensazione. Un cane stava abbaiando dal piano di sotto, nel salotto, e Mark non avrebbe mai permesso ai cani di mettersi a fare quel gran baccano dentro casa. Con indosso solo i pantaloni del pigiama, l'uomo si precipitò fuori dalla stanza e giù per le scale, dove trovò Diavolo bloccato nel salotto: era riuscito ad entrare dalla finestra, ma poi l'aveva riaccostata per sbaglio e non riusciva più ad aprirla, così si era messo ad abbaiare come un matto.

«Mark!» Chiamò Timothy «Mark!? Dove sei?».

Nessuna risposta. L'uomo condusse fuori Diavolo, che fu ben contento di riprendere a correre per la campagna e ruzzolarsi insieme a suo fratello, avvinghiato in una lotta giocosa.

«Mark!» Gridò di nuovo Timothy. Ancora una volta, nessuna risposta.

All'entrata, il cappello da cowboy, che Mark metteva sempre quando andava al lavoro, era appeso all'appendiabiti.

Insospettito, Timothy corse alla camera di suo fratello e trovò la porta socchiusa. Bussò, ma come si aspettava non ebbe alcuna risposta. Spalancò la porta: il letto era vuoto e non era stato neppure riordinato. Con il cuore in gola, controllò anche la camera di Sara e non si sorprese più di tanto quando non vide neppure lei.

«Dannazione!» Gridò, dando un pugno alla porta. Un dolore cupo gli risalì dalle nocche al polso, facendogli tremare il braccio.

Dove erano finiti quei due? Mark non stava bene, non era capace di affrontare un bel niente, e Sara lo aveva comunque portato con sé? Avevano combuttato per ingannare Timothy, per lasciarlo a casa mentre andavano ad affrontare da soli un clan mafioso?

Timothy si vestì e fece una colazione veloce prima di prendere il furgoncino e partire. Gli serviva un tecnico che rimettesse a posto i fili del telefono, un poliziotto a cui denunciare quello che era successo e, se riusciva a trovarlo, suo fratello da riportare a casa. E aveva paura, una paura matta, che gli faceva tremare le gambe. Guidava piano, pur desiderando di premere l'acceleratore a tavoletta. Vide un ragazzo vestito come uno spazzino che raccoglieva delle buste dal lato della strada. Lo conosceva da anni, ma per la prima volta si accorse che il ragazzo aveva una pistola che spuntava dalla tasca. Ma era davvero una pistola o solo qualcosa che sembrava tale? Timothy si sentì contemporaneamente ingenuo e paranoico. I tagli che gli bruciavano sul petto gli suggerivano che intorno a lui le cose non erano come gli erano sempre sembrate, ma la razionalità gli suggeriva che non tutto poteva essere interconnesso in una rete criminale che voleva ucciderlo.

Passò la mattinata in cerca di suo fratello, ma non riuscì a trovarlo. Chiese l'aiuto dei suoi amici del bar, della squadra di basket, dei vecchi compagni di scuola con cui si vedeva ancora, persino del tecnico che avrebbe dovuto aggiustare il loro telefono, il quale conosceva Mark da quand'era un bambino.

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