Capitolo trentunesimo - Parte Seconda: L'ultimo

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  "Take this life
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I'm already dead
I'll rise to fall again"

Give me a sign, Breaking Benjamin

- Give me a sign, Breaking Benjamin

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New York, 1913

La prima cosa che si notò di Akràv, quando entrò dalla porta urlando, furono le vesti sporche di sangue e il terrore che gli riempiva gli occhi. Subito dopo venne ciò che teneva stretto tra le braccia: un corpo.

Sul momento Salomone non capì, ma il suo istinto prevalse facendolo muovere, come se sapesse. In un attimo abbandonò la poltrona su cui era rimasto fermo a leggere per l'ultima ora e, con il libro ancora in mano, andò incontro alla Chimera nella speranza che il corpo non fosse quello di Hamza, vista la zazzera scura. Faticava a vedere così lontano e la cosa lo agitò più di quanto il suo hagufah attuale potesse permettersi. Era ormai agli sgoccioli, l'aveva prosciugato tanto da costringerlo agli occhiali.

Le braccia fecero su e giù mimando una sorta di volo lento e calmo, in modo da tranquillizzare Zenas.
«Hu zaquq la'ezerah (ha bisogno di aiuto)» urlò quasi con la bava alla bocca, oltrepassandolo senza nemmeno notare il tentativo del Re di placarlo. Subito alle sue spalle comparve Z'év, il volto pallido e chiazze rosse a segnarle la giacca. Che si trattasse davvero della sua terza Chimera?

«È Hamza?» le chiese in un fiato, certo che con uno sguardo la Contessa avrebbe potuto ucciderlo. Non era necessario parlare in situazioni di quel tipo.
«Lo, al tideag (No, tranquillo)» mollando la presa su un angolo della gonna gli afferrò il braccio, strinse per dargli conforto e poi procedere: «ma dobbiamo fare qualcosa.» In un attimo fu lontana da lui e accanto al fratello. Senza esitazione si chinò sul tavolo da pranzo sbattendo a terra il candelabro, la frutta secca e i centrini che Willhelmina aveva ricamato con tanta meticolosità.
In un attimo il piano ligneo fu libero e Zenas vi adagiò sopra il corpo. Forse aveva pianto nel tragitto fin lì, forse lo stava ancora facendo e, in un certo modo, Salomone si sentì al contempo addolorato e preoccupato mentre avanzava verso la sala da pranzo.
Akràv d'improvviso abbassò il viso sul proprio tesoretto, gli porse la guancia per sentirne il respiro sulla pelle. Era un fascio di nervi, si notava persino con la vista offuscata.
«Hu 'adayinn noshem! Bevaqashah... (Respira ancora! Ti prego...)» si volse verso di lui, gli occhi rossi e la bocca impastata. Sì, Zenas aveva pianto.
Salomone mosse qualche passo pesante, le assi del parquet scricchiolarono sotto il suo peso. Sentiva nell'aria una sensazione che conosceva, una consapevolezza che avrebbe tanto voluto ignorare e che gli torse lo stomaco, eppure non disse nulla. I rumori della casa si mischiarono al respiro grosso dell'amico, alla frenesia di Alexandria nel cercare qualcosa e, in ultimo, al gocciolare ritmico del sangue. Era ovvio ci fosse una grossa emorragia in corso e che il tempo a disposizione si stesse assottigliando come una corda che brucia, eppure avanzò con inerzia sino ad arrivare accanto alla sua Chimera.
«Mi zeh? (Chi è?)» domandò risalendo con lo sguardo dalle scarpe lise, probabilmente di qualche numero più grandi del necessario, lungo brache rattoppate, bretelle di cuoio e una camicia rovinata in più punti, non più bianca ma rossa come la morte. Quello sul suo tavolo era un corpo minuto, ancora da svilupparsi. Il viso parlava di un'infanzia rubata dal lavoro e di una tragedia appena accorsa.
Zenas deglutì per rispondere, ma appena aprì bocca la voce di Colette entrò nella stanza squarciando aspramente l'atmosfera: «Ganav qatann (un ladruncolo).» 
Salomone le lanciò uno sguardo da sopra la spalla. Si era aspettato la smorfia schifata e il movimento lesto con cui si levò i guanti, ma non il tic. «Un altro di quei mocciosi che non sanno tenere le mani al proprio posto» i boccoli rimbalzarono intorno al suo meraviglioso viso, facendogli domandare ancora una volta come tanta bellezza potesse celare un simile ribrezzo per il prossimo.
Accanto a sé, il Re percepì un movimento, forse uno scatto che bloccò prima che potesse provocare un disastro.
 «È mio amico! Un bravo ragazzo!»
Colette si tolse il giacchino, avvicinandosi a sua volta al tavolo. Non rispose subito, prima si concesse il lusso d'osservare il piccolo: «Al tuo posto, akh, rivaluterei chi chiamare con tale nome.» I due si lanciarono sguardi di fuoco e, stretto nella propria mano, Salomone poté sentire il muscolo del braccio di Zenas contrarsi, resistere all'istinto di divincolarsi e afferrare la sorella per il collo.
«Come puoi essere una tale arpia?»
Lei slacciò il primo bottone della camicia del ragazzino, ignorando la domanda di Akràv.
«Ha cercato di rubarmi la borsetta,» soffiò rivolgendosi a nessuno in particolare e continuando a slacciare: «i "bravi ragazzi" a mio avviso si comportano diversamente.»
«Tu non lo conosci!» Ringhiò l'altro.
Una fitta alla tempia fece socchiudere gli occhi del Re. Non ne poteva più di tutte quelle discussioni, erano ormai mesi che Colette sembrava insofferente alla presenza del fratello e non riusciva a capirne il perché.
«E nemmeno è qualcosa che bramo fare, akh» Alexandria l'affiancò porgendole una bacinella d'acqua e degli stracci. «Di grazia!» sbottò: «Abbiate un minimo di contegno, potrebbe morire e voi state qui a bisticciare come due infanti?» Poi si rivolse a Salomone: «Adon, atah yakhol la'azor lo? (Sire, potete aiutarlo?)»
Il Re tornò a fissare il ragazzino ora a petto nudo. Grossi ematomi gli chiazzavano la pelle chiara e sicuramente doveva avere una ferita non indifferente all'altezza della nuca. Fiaccamente lasciò la presa su Zenas, allontanandolo a sufficienza per poter prendere il suo posto accanto al volto della vittima. Avrebbe tranquillamente potuto rimettersi seduto sulla propria poltrona e lasciare che i minuti facessero il loro inesorabile corso, ma per amore di Akràv finse ci fosse almeno una possibilità per quel poveretto.
«Zeh niqera Nikolaij (si chiama Nikolaij)» mugolò la Chimera accanto al suo orecchio, facendogli quasi venir voglia di storcere la bocca.
Non voleva saperlo. A dire il vero non voleva sapere nulla di lui. Sapere, conoscerlo, avrebbe creato tra loro un legame, gli avrebbe fatto provare un'empatia, una pietà che si era ripromesso decine di volte di estirpare dal proprio essere.
Con il pollice gli alzò una palpebra, incontrando solo sclera e un alone vago dove l'iride e la pupilla dovevano essersi nascoste. Fece la stessa cosa sull'altro occhio.
«Lavora con me al porto.»
Non dirmelo, avrebbe voluto urlargli.
«Lui e lo zio si occupano della famiglia. Ha due fratelli più piccoli. Lui... li ama così tanto... N-noi dobbiamo» Zitto! «aiutarlo. So che possiamo!»
Delicatamente Salomone passò una mano sopra il costato del piccolo. Tastò con premura in alcuni punti, sentì le costole rotte sotto polpastrelli la cui sensibilità stava andando scemando. Probabilmente doveva aver riscontrato più di un trauma; forse l'emorragia che lo stava uccidendo non era una.
Alzò lo sguardo su Colette e lei capì, ma tacque. Avrebbe potuto dire l'ennesima cattiveria, strappare al fratello la speranza, eppure non lo fece. Da qualche parte in lei esisteva ancora un cuore pulsante.
«Adon... non si può morire a dodici anni.»
Taci!
Salomone chiuse gli occhi, strinse forte i denti e si chiese se, provandoci, ce l'avrebbe fatta.
«Uscite» ordinò dal profondo della propria gola, sentendo una scossa pizzicargli la carne. L'Ars si stava muovendo, reagiva al suo stato d'animo. Era pronto a imporlo se avessero osato resistere.
Z'év lo guardò. Era allibita. «M-ma possiamo-»
«Lasciatemi, ho detto. Solo Wòréb può restare.»
Zenas lo strattonò malamente. Le sue mani ruvide gli sgualcirono la giacca e con il viso arrivò a pochi centimetri da quello del Re. A quella distanza, persino se fosse stato cieco, Salomone avrebbe potuto leggere i pensieri della Chimera dalle pieghe sul suo viso.
«Stai scherzando?»
«No.»
«Lei è pronta a lasciarlo morire! Hai sentito come lo ha definito!» Gocce della sua saliva gli sfiorarono le guance, impigliandosi nella barba sale e pepe. Akràv era furioso e la cosa gli torse lo stomaco. «È solo un bambino!»
«Ma se il suo destino è quello di morire oggi io non posso oppormi, akh
A quelle parole la stretta aumentò, il braccio prese a formicolargli e un'altra scossa pizzicò sia lui sia la Chimera, circuito chiuso in cui far passare le scariche fatali dell'Ars.
«Eppure hai sette persone che testimoniano il contrario, Sire.» Il viso più vicino, la minaccia della mutazione come un'ombra sfuocata alle spalle di Zenas. Salomone sapeva che, nonostante la rabbia, mai lo avrebbe colpito, eppure sentì la forza della sua rabbia, del suo dolore, investirlo con la medesima violenza che avrebbe avuto quel pungiglione. Nella mente di Akràv Nikolaij doveva star prendendo, a distanza di secoli, il posto che una volta era stato del suo Niketas.
«Esci.»
«Promettimi che lo salverai.» Alexandria afferrò il fratello per la vita, incurante della sua coda a minacciare entrambi. Con dolce decisione provò ad allontanarlo dal Re che, guardando negli occhi la propria creatura, si chiese se alla fine avrebbe avuto il coraggio di domandargli ciò che ancora stava tacendo.
«Farò ciò che mi è umanamente possibile. Altro non mi compete più, yoda'att zott (lo sai bene).»
La smorfia di Akràv fu pura delusione e, mollando la presa sul suo sovrano, fece qualcosa che scosse Salomone nel profondo. Volgendo il capo dall'altra parte sputò ai suoi piedi, gli rivolse un ultimo sguardo scrollandosi di dosso le braccia di Alex e se ne andò - non fuori dalla sala da pranzo, ma dalla casa. Lei lo seguì senza che il Re dovesse dire nulla. Sapeva bene cosa fare, quali compiti era necessario svolgere.

Quando la porta d'ingresso si richiuse alle loro spalle, Salomone si concesse un lunghissimo momento di silenzio.

Era esausto.

Quell'hagufah, quella vita, la piega che la loro coesistenza stava prendendo diventava ogni giorno più logorante.

«Cosa vuoi che faccia? Chiamo il becchino o qualcuno che ne lasci il corpo in un vicolo?» Aveva le braccia conserte e un'espressione annoiata. Era insensibile a tutto, pensò lui invidiandola, persino al sangue che le avrebbe macchiato la camicetta.
«Ho detto a tuo fratello che avrei provato a salvarlo» una specie di sorriso gli tese le labbra. Doveva a Zenas almeno un tentativo, pensò.
«Sappiamo entrambi che non è possibile. Non umanamente. E lascia che sia brutalmente onesta con te, mio Re,» il peso della donna andò a gravare su una sola gamba. Una ciocca ribelle le cadde davanti al viso, catalizzando lo sguardo di Salomone su quelle iridi immense e scure come il sonno più profondo. Il modo in cui l'Ars aveva mutato Colette era qualcosa di spaventoso. L'aveva resa ancora più bella e crudele, una sirena pronta a strappare la vita di qualsiasi persona si fosse trovata persa: «un topo di fogna in vita non verrà santificato dalla morte. Questo moccioso non è fatto per la nostra mishpakha (famiglia).»

«Non credi nella sua redenzione?» Soppesando quel momento di finta calma, dove un quasi cadavere se ne stava sdraiato sul tavolo dove quella stessa sera avrebbero cenato, l'uomo si sistemò gli occhiali.

«Ho visto cosa quest'esistenza ci ha fatto.»

Salomone rise. Cosa fare? Tradire ancora una promessa per amore o pugnalare la fiducia di un fratello? «Sbaglio o non hai gradito il fatto che ti abbia rubato la borsetta? Cosa nascondevi lì dentro di tanto caro?»

Colette sbuffò, il suo sguardo fuggì lontano per nascondere qualcosa.
«Non mi piace. Non lo voglio, ma non sono io a dover decidere, giusto?»

 Non lo voglio, ma non sono io a dover decidere, giusto?»

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Le Chimere di Salomone: il ReWhere stories live. Discover now