Capitolo 42 (XIII). Il fidanzamento

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«Io mi rendo conto di essere un privilegiato a stare qui, in questa sala, accanto alla mia futura moglie. Forse non tutti i presenti lo sanno, ma io. . . non sono di questo posto, non appartengo a questo ceto. Non sono. . . uno di voi.»

Irene, al sentire questo, si girò verso Franco, lo abbracciò e nascose per metà il viso sul suo petto, cominciò ad aver paura dell'argomento che stava per trattare suo figlio, Franco avvolse le braccia attorno alla sua esile figura e stette in ascolto: il figlio della sua compagna stava catturando tutti; si guardò intorno; non solo c'era silenzio, ma immobilità; nessuno fiatava, nessuno si muoveva. Le sue parole arrivavano con una dolcezza che commuoveva tanto per il tono quasi quanto per il loro significato: 

«C'era una volta. . . un gattino di gesso che nessuno aveva voluto. Sì, le fiabe di solito iniziano così, con il "c'era una volta" e quella che sto per raccontarvi è  una fiaba che, però, è successa veramente. La mia vita così è diventata quasi subito: ero un gattino che nessuno aveva voluto o, meglio, il nessuno che sarebbe dovuto essere il mio tutto: mio padre che mi abbandonò quando avevo quattro anni; è inutile dirvi il perché, non importa, per un bambino non ci sarebbe comunque stato un perché sufficiente. Questo gattino, rimasto da solo, avrebbe potuto perdersi, prendere brutte strade, ma non l'ha fatto: è andato avanti, forse con ingenuità, forse con la voglia di esplorare, di conoscere, di trovare un significato in quello che gli era successo, nel vuoto che aveva lasciato un padre che se n'era andato. Nella fiaba il gattino ovviamente rimane sempre gattino fin quando la principessa spezza l'incantesimo e lo fa diventare principe; nella realtà questo gattino che vedete non è di gesso, però, è in carne e ossa, ma poco importa, perché dentro si porta comunque la ferita antica, anno dopo anno, la ferita del sapere che non è stato scelto, che è stato scartato da chi avrebbe dovuto guidarlo e stargli vicino. Passano gli anni lentamente, il gattino si dedica allo studio, non gli pesa, non so se non gli pesi perché sia bravo o semplicemente perché ha la forza di volontà di distanziarsi da colui che lo ha abbandonato, non vuole imitarlo, vuole esser un altro uomo. Studia e arriva fino all'università quasi senza accorgersene. Passano altri anni e, quando sta per laurearsi, questo gattino incontra Anna; lei lo conosce, lo apprezza, sa cosa ha passato, sa cosa ha dentro, e più lo conosce più gli si avvicina e, pian piano, si innamora di lui, si innamora di questo gattino, e il gattino di lei. Sì. . . quel gattino che vedete adesso, ferito quale io sono.» 

Marco chinò il capo in segno di conclusione, i presenti applaudirono e molti "Bravo!", fischi, e altri tintinnii di bicchieri seguirono queste ultime parole mentre Anna, al colmo dell'emozione, gli prese il viso con decisione e con entrambe le mani lo portò a sé e lo baciò a sorpresa, più appassionatamente di quando il bacio era stato richiesto. Sara si commosse e, insieme a Luigi, si guardò intorno e vide dappertutto visi sorridenti ed emozionati; Irene cominciò a piangere silenziosa sul petto di Franco mentre Ilaria, commossa, pensava: «te l'avevo detto Marco mio: la Madonna ti avrebbe dato le parole giuste!»

Sembrava tutto concluso e già gli ospiti stavano quasi ritornando alla normalità quando, contro ogni aspettativa, Marco rialzò il braccio per chiedere la parola; se ne accorsero quelli delle prime file che subito urlarono «silenzio! Fatelo parlare!» a quelli dopo e quelli dopo a quelli dopo ancora in una catena di «sst», via via più cheti fino ad arrivare, una manciata di secondi dopo, a un altro silenzio, profondo, ma diverso dal precedente; quella volta, infatti, era condito anche con una certa attesa che, per alcuni, divenne quasi inquietudine; le due mamme, Sara e Irene, si fecero prendere dall'ansia per timore che Marco volesse aggiungere qualcosa di non opportuno: il discorso sembrava già perfetto, perché voler aggiungere qualcosa? Sara guardò la figlia con un'espressione di dubbio e timore, quasi per invitarla a distogliere Marco da fare quell'aggiunta possibilmente inopportuna, o comunque inutile, ma Anna, staccatasi da lui, ebbe totale fiducia, gli strinse la mano appoggiata al tavolo della torta e gli sorrise dicendogli sottovoce: «dai, gattino, parla ancora, voglio sentirti»; Marco le sorrise, «grazie, micia, ti amo», le disse, ricambiando la stretta; sembrava quasi più deciso della volta precedente; aspettò che si facesse di nuovo silenzio e continuò:

Dolore e perdono (Parte VII. La tragedia)Where stories live. Discover now