La mia vita fa schifo!
Ohh.. una frase ad effetto, diretta che riassume tutto in pochissime parole. Credete che sia esagerata? Beh, se lo credete, sappiate che credete male e adesso vi spiegherò perché.
La sveglia suonava ogni giorno troppo presto, ero obbligata ad alzarmi dal letto ogni mattina dal letto, fine settimana compreso, per andare in una maledetta accademia per "prodigi" del calcio. Era una sorta di istituto in cui si studiava e allo stesso tempo si giocava a calcio, anche se definirlo "giocare" era del tutto sbagliato. Non ci era permesso giocare liberamente, eravamo obbligati a seguire alla lettera le strategie di gioco dei nostri allenatori e tenerci sempre in forma, seguendo una dieta ferrea e andando in palestra cinque giorni su sette.
In teoria il calcio dovrebbe essere uno sport di squadra, ma lì nessuno faceva squadra, ognuno pensava a sé stesso e ai propri compiti. Ci era permesso socializzare durante altri momenti della giornata, ma assolutamente non durante gli allenamenti.
Praticamente ti passava la voglia di giocare!
Mi chiamo Axera Wave, ho quattordici anni e odio. questo. dannato. posto.
L'accademia che frequentavo si chiama "Imperial Academy" ed era accessibile a pochissime persone, dal momento che era la scuola stessa a selezionare i ragazzi che voleva. Praticamente era la scuola a trovare te, non il contrario: ogni singolo studente che frequentava quella scuola era stato selezionato secondo dei criteri rigidissimi richiesti dall'accademia e una volta che cominciava a frequentarla, veniva seguito rigidamente dagli allenatori della scuola.
Era un sistema troppo rigido, troppo statico, non era possibile esprimere la propria opinione o fare qualcosa di diverso, sembrava quasi un'accademia militare.
L'idea che lo sport che mi piaceva tanto venisse trattato come un piano da seguire alla lettera mi toglieva ogni briciolo di vita e di felicità, non mi faceva vivere le giornate con serenità, anzi, nei pochi momenti liberi che avevamo mi rinchiudevo nella mia stanza. A far che vi starete chiedendo. Beh, assolutamente niente. Passavo ore intere a guardare il soffitto, sperando che quel senso di vuoto che mi affliggeva sarebbe prima o poi finito. E fortunatamente dopo tanto, tanto tempo qualcosa cambiò.
Un pomeriggio ero così immersa nei miei pensieri da non accorgermi minimamente che qualcuno stesse bussando alla porta della mia stanza. Era Zedd, il capitano di una delle tante squadre dell'accademia.
Circolavano voci diverse sul suo conto: alcune dicevano che un tempo fosse un ragazzo molto gentile e solare e che dopo aver trascorso anni e anni qui dentro si fosse spento, altre invece dicevano che fosse sempre stato stronzo e insopportabile. Io non lo conoscevo più di tanto, non avrei saputo dire quale fosse vera, sapevo soltanto che con me si era sempre comportato da stronzo egoista.
Zedd: dobbiamo andare agli allenamenti, ti dai una mossa?! -gridò da dietro la porta.
Io: -sbuffai- ..tu intanto scendi, ti raggiungerò tra poco
Zedd: non esiste, esci dalla stanza, ora!
Io: -mi alzo dal letto e mi avvicino alla porta, l'apro e gli urlo in faccia- io vado a quei cazzo di allenamenti come e quando mi pare, chiaro?!
Zedd: mhh, nervosetta. Ti hanno dato da mangiare pane e frustrazione a pranzo?
Io: no, non ho fatto nemmeno in tempo a prenderne una fetta, li avevate già finiti tu e le tue amichette!
Zedd: cosa pretendi, principessa? Non posso concederti un trattamento d'onore e dividere il mio cibo con te, se tu non mi mostri nemmeno un po' di interesse
Io: farei ammuffire quel pane piuttosto che dividerlo con te
Zedd: sai che sei davvero sexy quando rispondi male? -ghignò.
Io: ah sì? Lo sarei anche se ti tirassi un pugno sul naso?
Zedd: lo saresti sempre ai miei occhi.
Dimenticavo. Non solo era diventato il più grande idiota sulla faccia della Terra, ma anche il donnaiolo più fastidioso che avessi mai visto. Non era affatto un tipo serio, anzi, passava da una ragazza all'altra continuamente, le cambiava come cambiava le mutande e ultimamente aveva messo gli occhi su di me.
Ma perché?! Mi chiedevo io. Non avevo minimamente accennato interesse per lui, come non lo avevo mai fatto per nessuno, ero soltanto una dei tanti ragazzi che frequentavano l'accademia. Non avevo mai fatto nulla per spiccare o attirare l'attenzione, me ne stavo sempre nel mio angoletto, come aveva fatto a notarmi?
Mister: Wave, sei stata convocata in presidenza. Forza, va'! E tu -indicò Zedd- vedi di scendere in campo, i tuoi compagni ti stanno aspettando.
Finii di darmi una rapida sistemata e poi mi diressi velocemente verso l'ufficio del preside. Bussai alla porta e dopo pochi secondi entrai: vidi mio padre e il preside intenti a scambiare civilmente due parole, ma non appena si resero conto della mia presenza, fecero calare un silenzio tombale.
Io: che ci fai qui, Patrick? -domandai seccata a mio padre- Oggi non è giorno di visita
Papà: sono qui per portarti a casa
Io: cosa? A casa? E perché?
Papà: ci trasferiamo a Tokyo, il mio capo mi ha dato una promozione. Vuole che vada a lavorare per lui in città e vuole anche che ci vada subito, quindi adesso va' a prendere tutte le tue cose, ci aspetta un viaggio molto lungo e abbiamo poco tempo
Io: e perché mai dovrei venire con te? La mia vita è tutta qui: scuola e allenamenti. In più, non ci è permesso frequentare l'accademia da pendolari, qui ho vitto e alloggio e si prendono cura di me
Preside: era proprio quello che cercavo di spiegarle, signor Wave. Axera non potrà più frequentare l'accademia se la porterà via da qui
Papà: non m'interessa, mia figlia viene con me, non si discute
Io: "mia figlia", ma per favore, mi hai lasciata in quest'accademia per anni, senza venirmi a trovare, perché eri troppo impegnato con il lavoro e adesso che ti sei ricordato della mia esistenza, vuoi portarmi via? Ma stai bene?
Papà: sta' zitta, qui le decisioni non le prendi tu!
Io: te lo scordi che io venga con te!
Papà: tu sei minorenne e io sono tuo padre, ho ancora potere decisionale su di te, quindi adesso va' nella tua stanza e prendi tutte le tue cose! Hai capito?! -mi gridò in faccia.
Io: ti odio! -mi diressi velocemente nella mia stanza per fare le valigie.
Tra me e mio padre non era mai corso buon sangue, ci eravamo sempre odiati a vicenda, anche se inizialmente non capivo perché, dato che davo per scontato che un padre amasse incondizionatamente i propri figli, ma a quanto pare per noi non era così.
Trascorse tutta la sua vita ad incolparmi per la scomparsa della persona a cui teneva di più: mia madre.
Mia madre era sempre stata abbastanza cagionevole di salute, infatti quando i medici si resero conto del fatto che stesse riuscendo a portare avanti una gravidanza, ne rimasero piuttosto sorpresi, ma purtroppo non riuscì a sopportare i dolori del parto, così morì pochi minuti dopo avermi dato alla luce.
Mio padre non accettò mai la sua morte, era come se qualcosa in lui si fosse spezzato e a distanza di anni non fosse ancora riuscito a riparlarlo. Continuò a vivere la sua vita, ignorando completamente la mia esistenza e quando non poteva evitarmi, sfogava tutto il suo dolore su di me: è da quando ne ho memoria che lui mi picchia e fa volare insulti e offese di tutti i colori nei miei confronti.
A volte ci andava piano, si limitava ad un semplice schiaffo e a qualche brutta parola, ma quando si arrabbiava, usciva fuori di sé, diventava impossibile calmarlo o farlo ragionare, perciò anch'io cercavo di evitarlo e mi facevo andare bene la vita nell'accademia, era sempre meglio di vivere con lui.
Una volta aver raccattato tutte le mie cose, scesi in cortile e caricai le valigie nel bagagliaio della sua auto, poi salii in macchina e partii con mio padre. Fortunatamente trascorse tutta la durata del viaggio al telefono, perciò ne approfittai per prendere il cellulare e distrarmi con un po' di musica. Solo dopo un paio d'ore sentii la macchina fermarsi, mi resi conto di essere finalmente giunti a destinazione.
Papà: non ti permettere mai più di parlarmi in quel modo, ragazzina! Sono tuo padre e devi portarmi rispetto
Io: tu ti ricordi di essere mio padre solo quando ti fa comodo, perciò non capisco nemmeno il motivo per cui io sia qui! A che ti servo io? Avevi finalmente la possibilità di allontanarti e rifarti una vita senza di me, ma no, se io non sto male, tu non sei soddisfatto! Smetti di essere mio padre come io ho smesso di essere tua figlia, stronzo!
Papà: ripetilo se ne hai il coraggio
Io: stronzo, ho detto che sei uno stronzo!
Papà: e tu infatti sei una stronzetta, tale padre, tale figlia
Io: IO NON SONO TUA FIGLIA. Tu per me non sei niente, TU NON VALI NIENTE
Papà: come?!
Io: vali tanto quanto la pena di sprecare del fiato con te: niente!
Patrick protese una sua mano verso di me e fece per darmi uno schiaffo, ma lo squillo del suo telefono lo fermò in un secondo.
Nella mia testa quel gesto fu l'ennesima martellata al cuore: insomma, bastava una telefonata per fermarlo, ma non le mie suppliche. Che stronzo..
Non rimasi lì di fronte a lui neanche un secondo di più, presi le mie cose e le sistemai in quella che immaginavo fosse la mia nuova stanza.
Non avevo fatto nemmeno in tempo a sistemare il primo scatolone che sentii la macchina di Patrick sgommare via, chissà dove. Sinceramente non volevo saperlo, mi rallegrai semplicemente del fatto di essere finalmente sola. Mi sentivo molto tranquilla quando ero sola, stare in mezzo ad altre persone o con Patrick mi metteva terribilmente a disagio. Sapere di essere sola mi dava la certezza che niente e nessuno avrebbe potuto farmi del male, però non riuscivo a godermela completamente. Era più un sollievo che vera e propria tranquillità il fatto di preferire la solitudine, per questo motivo non riuscivo neanche ad apprezzarla del tutto.
Successivamente scesi in cucina per preparmi qualcosa da mangiare. Dopo aver finito, andai in bagno e mi preparai per andare a dormire. Il giorno successivo sarebbe stato il mio primo giorno nella nuova scuola: la Raimon Jr High.
Speravo di riuscire a trovarmi almeno un po' bene, non poteva certamente essere peggio dell'accademia, vero? Ma il mio timore non era per le persone che avrei potuto incontrare quanto per il mio carattere complicato: la mia freddezza e la mia forza erano solo una facciata, una parete di cristallo che sarebbe potuta crollare da un momento all'altro perché io, a dirla tutta, non mi sentivo forte o invincibile, ero piuttosto fragile, volevo davvero che qualcuno mi accettasse per quella che ero e mi dimostrasse affetto, ero semplicemente brava a nasconderlo e fingere di essere un'altra persona. A volte mi sembrava che questa finta me prendesse il sopravvento e mi facesse fare cose che io normalmente non farei, mi sembrava di perdere il controllo e di vivere la mia vita come uno spettatore, non come la protagonista.
Non sapevo più come andare avanti senza impazzire. Avrei dato qualunque cosa in cambio, anche se di base non avevo niente, pur di riuscire ad essere felice.
Perché era così difficile essere felici?
Cosa devo fare per esserlo?
{I miei tre righi}
Ciao a tutti.
Questa è la mia primissima storia su Wattpad e spero con tutto il cuore che possa piacervi. Io cercherò di fare del mio meglio e di impegnarmi al massimo.
Buona lettura!
Axera♤