If I Was Your Vampire

Oleh giuliabinario

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‼️TUTTI I DIRITTI SONO RISERVATI‼️ In seguito alla tragica morte del padre,Elvira, sente di non aver più null... Lebih Banyak

Capitolo 1. "In lutto." (Revisionato)
Capitolo .2 "Uno strano villaggio."
Capitolo 3. "Misteriosi inquilini."
Capitolo 4. "Incontri al chiaro di luna, o forse, di lume."
Capitolo 5. "Ospiti a sorpresa."
Capitolo 6. "Verità sul filo del rasoio"."
Capitolo 7. "Fragranze mortali."
Capitolo 8. "Sognare ad occhi aperti."
Capitolo 9. "La Laguna."
Capitolo 10. "Conoscere talvolta significa osare."
Capitolo 11. "Ospiti indiscreti."
Capitolo 12. "Il libro proibito."
Capitolo 13. "Passare inosservata."
Capitolo 14. "Ciò che si dice enigmatico."
Capitolo 15. "Disobbedendo alle leggi morali gli darai un nome."
Capitolo 16. "Le porte dell'inferno."
Capitolo 17. "Un pericoloso intruso."
Capitolo 18. "Guarigioni miracolose."
Capitolo 19. "Spirito di osservazione."
Capitolo 20. "Lubugri danze attirano il buio."
Capitolo 21. "Segreti di famiglia."
Capitolo 22. "Segreti da mantenere."
Capitolo 23. "Ospite a sorpresa."
Capitolo 24. "Macabri pettegolezzi."
Capitolo 25. "Con il fiato sul collo."
Capitolo 26. "Questione di confidenza."
PARTE 2: Capitolo 27 "Faide in famiglia" (Jane's POV)
Capitolo 28. "Guidata da sinistri venti." (Elvira's POV)
Capitolo 29. "Lo specchio: Itsuko."(Elvira's POV)
Capitolo 30. "Amore e Morte: un mix infernale." (Elvira's POV)
Capitolo 31. "La nuova Itsuko: Elvira." (Elvira's POV)
Capitolo 32. "Una via, due possibilità." (Jane's POV)
Capitolo 33. "Il prete del villagio."(Elvira's POV)
Capitolo 34. "Un trio disfunzionale."(Jane's POV)
Capitolo 35. (Elvira's POV) "Le tenebre di Villa Stoica."
Capitolo 36. "Incontro ultruterreno." (Elvira's POV)
Capitolo 37. "Personaggi dal passato: Angela." (Jane's POV)
Capitolo 38. "Il dilagare del male." (Jane's POV)
Capitolo 39. "Sogni, ricordi e realtà." (Elvira's POV)
Capitolo 40. "Questione di destinazioni." (Jane's POV)
Capitolo 41. "La dottoressa Lucretia."(Jane's POV)
Capitolo 42. "Ossessioni, fobie e paranoie." (Elvira's POV)
Capitolo 43. "Una squadra più che eterogenea". (Jane's POV)
Capitolo 44. "L'inganno dei sensi"(Elvira's POV)
Capitolo 45. "La madre di Angela." (Jane's POV)
Capitolo 46. "Vecchie storie di famiglia". (Elvira's POV)
Capitolo 47. "Una nuova missione."(Elvira's POV)
Capitolo 48. "Dorian e Ambra"

Primi capitoli revisionati!

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Oleh giuliabinario

Contemplai riluttante la lista di ammissione ai corsi di laurea per cui avevo fatto domanda cercando il mio nome. Speravo con tutto il cuore di essere stata ammessa in una delle mie destinazioni richieste: Inghilterra, Stati Uniti e infine l'Irlanda. Scorrendo l'indice sull'elenco ruvido appeso nell'atrio  sentivo l'attesa farsi snervante, come se prosciugasse le mie speranze di nome in nome. Dopo aver frequentato un liceo piuttosto mediocre con risultati relativamente degni di soddisfazione, decisi che era giunto il  momento giusto per dare una svolta significativa alla mia vita. Come molti altri giovani fanno, mi ero convinta ad abbandonare la notorietà di tutto ciò che oramai faceva parte della mia quotidianità da anni con la speranza, forse irrealistica, che il futuro se lo avessi condotto altrove, lontano dal passato che gli era nemico, sarebbe stato più clemente nei miei riguardi. I corridoi fatiscenti del mio liceo non avevano nulla di diverso da quelli di fogne svuotate dell'acqua putrida che le inondava in precedenza. Avevo vinto una borsa di studio alle medie ma, anche aggiungendovi tutti i risparmi di mia madre e il magro mantenimento di mio padre, non sarebbe stata sufficiente a coprire nemmeno i costi della prima rata di una qualsiasi altra scuola che fosse di poco migliore. 

"Signorina, mi scusi-" sobbalzai rischiando di perdere l'equilibrio, poiché la voce che mi chiamò era per mia sventura alquanto famigliare. I volti delle persone, si sa, le caratterizzano assai, sono però le loro voci ad animare quello che altrimenti sarebbe un burattino privo di opinioni, pensieri, desideri, fugaci emozioni.
Mi voltai passando le dita tra il ciuffo di capelli neri che copriva il lato destro del mio volto, chino per leggere il fondo dell'interminabile lista:
"Mi scusi signore, stavo cercando il mio nome." Ma l'uomo non rispose subito, si limitò a far scorrere il suo sguardo dal mio volto alle mie scarpe più volte, il suo intento di mettermi in soggezione era fallito; vi sono giorni in cui mi sono sentita padrona del mondo, altri, invece, protagonista di un qualche sinistro teatrino che sarebbe culminato nella mia morte. Mi credevo capace di mantenere un aurea autoritaria e distaccata, eppure ben presto il mio ego smisurato mi avrebbe condotta sul lastrico per eccesso di ingenuità. Ormai avevo compiuto i tanto attesi diciotto anni e come avevo già annunciato a mia madre, sarei partita il prima possibile dalla casa che lei aveva condiviso negli ultimi dieci anni con lui, con il mio patrigno e dirigente scolastico. Con un sorriso beffardo a trentadue denti, procuratosi con le fatiche di mia madre, Andrew mi porse un elenco con la dicitura "Fuori sede"; ero conscia del fatto che quelle parole non potevano significare nulla di buono eppure, compiaciuta dall'avversità della situazione che mi avrebbe permesso di autocommiserarmi indisturbata, piegai le labbra formando un docile ghigno.  Afferrai il foglio sfiorando la mano rugosa  del mio patrigno con la mia, tremolante e fredda. Quel contatto mi lasciò una terribile sensazione nell'animo, un certo sconcerto che sembrava aggradarlo a tal punto da deciderlo, senza sbirciare la mia misteriosa destinazione, a lasciarmi sola a valutare il da farsi. L'aria di sfida tra noi era palpabile, se solo per tutta questa narrazione ci fosse stato un reale testimone, lo potrei adesso affermare. Nuovamente cercai il mio posto nell'interminabile lista di nomi, più di quanti pensassi; infondo, novantasettesimo nella graduatoria,  ecco apparire il mio nome di battesimo: Elvira Maria Schmidt. Odiavo il mio nome, mi riportava alla mente l'amore di mio padre per la patria, Brașov, e la morbosità ingiustificata, perlomeno alla me di quel tempo, di mia madre nei confronti della religione. La ricerca di salvezza costante che l'uomo manifesta in ogni sua vana azione, se considerata in relazione alla mediocrità della vita di un essere umano comune, mi aveva sempre affascinata. Con lo sguardo mi spostai a destra alla ricerca della mia destinazione. Sentivo gli occhi perdere lucidità e riempirsi di lacrime salate, ancora una vota la mia ricerca aveva preso la piega peggiore che avessi potuto immaginare. Pareva uno scherzo del destino quello che mi si prospettava davanti, tanto che mi sfuggì una risata isterica che rimbombò per i corridoi deserti e bui dell'edificio spezzando la tranquillità di quella serata estiva. D'istinto cercai il mio telefono nello zaino e composi il numero di mia madre, volevo dirle che sarei dovuta tornare lì. Agli occhi di un sadico sarebbe stata indubbiamente una prospettiva allettante. Eppure, un senso di protezione mi pervase, bloccando ogni mio movimento, rallentando il mio ansimante respiro.

Come avrei potuto arrecarle un dolore così grande? Sarebbe stata in pensiero per me per il resto dell'anno, dondolando sulla sua sedia nella veranda con una tazza in mano di tè ormai freddo a farsi consumare da ricordi disturbanti e che tuttora la terrorizzano nel sonno. Mai è riuscita a parlare di quei momenti, tanto più da quando mio padre ha deciso di scordarsi di noi e voltare pagina. Eppure ricordo uno dei suoi incubi riguardo quel famigerato viaggio in Romania. La città  natale di mio padre era Brașov , a quanto ricordassi, ed era la sede dell'Università che avrei frequentato.
Non sarebbe stato un bene per una madre dalla salute già di per sé fragile scoprire che la propria unica figlia avrebbe conosciuto ciò che sapeva lei.
Decisi di mentire, le avrei fornito l'indirizzo di un'università sul confine rassicurandola sulle mie condizioni e poi sarei partita per la Transilvania indisturbata.
Non avevo memoria di quel breve periodo in cui, anche io che ero in fasce, mi imbarcai alla scoperta della vecchia casetta in cui nacque mio padre e ne esplorai ogni angolo nel disperato tentativo di percepire una sensazione che mi rassicurasse.
Talvolta persino un luogo sconosciuto può scaturire in un animo tormentato un po' di sollievo dato dall'apparente visione di una fiamma di flebile luce nel buio.
Buia era quella gelida stanza e flebile il mio respiro, apparente la fiamma che ardeva nel suo petto.

Guardai il suo volto più volte, perdendomi nei suoi occhi vitrei. Non percepivo più calore nel guardarli, era palese che la sua anima avesse abbandonato il corpo da tempo. Un brivido sinistro si insinuò dentro di me come invadenti radici di un albero avido di terra.
Non era il freddo austero della stanza,necessario per la conservazione delle salme, a disturbarmi,ma, quanto più l'aspetto della stanza dove si trovava il cadavere mio padre; le pareti di un verde sbiadito scrostato dal tempo, le luci fioche che lampeggiavamo deboli lasciando l'obitorio nella penombra. Non osavo smettere di far roteare le chiavi pesanti con le dita per paura di udire un qualunque  suono proveniente da quel luogo.
Poco prima un'infermiera aveva attirato la mia attenzione entrando furtivamente nella stanza:

"Dottore non sarà il caso di richiedere un'autopsia per quell'uomo?"

Aveva sussurrato tenendo gli occhi fissi sulla barella dove giaceva mio padre con le mani giunte, quasi stesse pregando.
La donna era matura, questo era chiaro viste le rughe profonde che solcavano il suo volto sciupato dai turni notturni e dai dispiaceri. Mia madre la conosceva molto bene, Eleonor si chiamava.
In paese spesso emergevano pettegolezzi riguardo le sventure che le hanno sottratto l'amato marito e il figlio ancora lattante.
Ricordo, di aver domando a mia madre di lei dopo averla incontrata al cimitero dove giaceva la mia famiglia materna.
Sembra ieri, se ci penso, quando ho attraversato il sentiero correndo e sghignazzando con la mia bambola di pezza stretta al petto. Era un cimitero sì, ma le lapidi era contornate da un quadretto naturale veramente piacevole: un lago cristallino, salici piangenti che vi si gettavano all'interno e distese di fiori dai colori pastello.
Nonostante la funzione che quel luogo effettivamente aveva, nonché quella di ospitare i defunti, ogni volta lì per me era come un regalo, pareva un bosco fatato.
D'improvviso però  percepii il tocco delicato di mia madre sulle spalle nude e mi bloccai di scatto, come paralizzata, dal momento che le sue dita premevano sulle mie ossa. Sembrava essere nervosa. Stavo per dimenarmi con  violenza selvaggia con l'intento di liberarmi dalla sua presa, quando vidi una donna, accasciata su un tumulo di pietre.
Mia madre non commentò la scena, mi strinse a sé coprendomi con il suo lungo cappotto usurato, si portò il fazzoletto al viso e si asciugò una lacrima voltandosi.

"Il suo bambino e suo marito sono in cielo Elvira. Andiamo a salutare la nonna piuttosto che disturbarla con la nostra presenza."

Mi sussurrò prendendomi per mano. Ancora oggi percepisco una tristezza tanto profonda quando la penso inerte sulla tomba del suo piccolo. Piangeva così forte da non aver più fiato. Non dimenticherò mai quella scena sconcertante, nessuno, a meno che non sia privo di cuore, sarebbe capace di farlo.
Se ne stava sullo stipite della porta accanto al medico legale ignorando con discrezione la mia presenza, si trattava di pratiche di routine per lei, eppure la sua freddezza mi feriva. Ero così giovane per affrontare la perdita di un genitore, perlopiù in queste circostanze.
Il dottore si avvicinò a me con passo pesante, facendo schioccare la suola delle sue scarpe sul pavimento in linoleum. Appariva molto professionale con il camice verde e gli occhiali scivolati sulla punta del naso aquilino. Parlava con estrema calma, non aveva compassione nel suo volto, solo comprensione. Poggiò delicatamente la mano sulla mia spalla come farebbe uno zio premuroso:

"Sono mortificato per la morte di tuo padre. Purtroppo difronte alla sua condizione di malato terminale non abbiamo potuto fare altro che rendere i suoi ultimi giorni meno dolorosi e attendere l'inevitabile."

Alla parola "malato terminale" lo guardai con  occhi pieni di lacrime. Il dottore colse la sorpresa in essi ma non disse nulla, come risposta, abbassò tristemente lo sguardo. Routine.
Certo, io avevo nascosto l'indirizzo della mia università, ma mia madre, come aveva osato tenermi nascosta l'imminente morte di mio padre? Provai una fitta lancinante al petto. Pensavo che sarei riuscita a trattenere le lacrime difronte alla salma, ma sapendo che avrei potuto incrociare il suo sguardo allegro per un'ultima volta questo mi risultava impossibile. Dopotutto i miei occhi all'ingiù, verdi come foglie rigogliose, li avevo presi da lui. Sentii le ginocchia cedermi.
Il dottore si congedò.
"Eleonor, stai con la signorina."
mormorò freneticamente sfogliando la cartella di un paziente.
Mi appoggiai tremolante alla barella di mio padre scivolando lentamente sul pavimento in preda a singhiozzi così impetuosi da spezzarmi il fiato. Eleonor si inginocchiò con fare materno e mi strinse la mano tra le sue. Compresi il suo dolore, la guardai con occhi rossi e gonfi, non ricambiò il mio sguardo, la sua professionalità glielo impediva, tuttavia  mi sussurrò parole difficili da digerire o perlomeno, da dimenticare:

"Mi dispiace tesoro. È dura percorrere la propria strada da soli."

Piansi per un tempo che non saprei definire a parole, in quella camera non vi erano finestre dalle quali scorgere il cielo o orologi. Sembrava tutto così surreale, ai confini dell'astrale o di un sogno fin troppo reale.
Mi alzai e senza mai voltarmi camminai velocemente fino alla mia auto, sentivo la tristezza sciamare e lasciar parte ad una rabbia incontrollabile. Si trattava di un meccanismo che conoscevo assai bene, era stato parte di me per gran parte della mia esistenza.
Mai avevo attraversato il vialetto di casa con così tanta foga di entrare in casa, nemmeno quando mio padre chiamava per sapere dove desiderassi andare a mangiare. L'idea di passare del tempo con lui ormai è da dimenticare, mi dilaniava il petto lentamente, come una lama piatta che lentamente mi veniva conficcata nel petto.
Entrai senza nemmeno salutare o fare un cenno, né a mia madre né al mio patrigno che se ne stava incurante su una poltrona infeltrita. L'orologio a pendolo appeso sulla parete di fronte confinava a rintoccare con insistenza ad ogni secondo che trascorreva, scandendo i movimenti frenetici di quell'uomo.
Mia madre,che invece stava risciacquando dei piatti del servizio buono,sicuramente in seguito ad una cena con colleghi alla quale io, a differenza del suo nuovo marito, non ero gradita, balzò in piedi sfilandosi velocemente il grembiule. Prese a seguirmi mentre correvo con l'agilità di un felino per le scale, saltando di scalino in scalino come da piccola facevo insieme a mio padre. Ormai nessuno aveva una buona parola per me e nulla un buon ricordo in quella casa.
Attraversare quel corridoio mi parse come sprofondare in un terribile incubo che dipingeva il malessere che aveva avvelenato il mio cuore. Un turbinio di emozioni negative e di ricordi che si manifestavano in maniera confusionale simultaneamente mi stordirono.
Mia madre piangendo mi gridava di aspettarla, mi supplicava di ascoltare ciò che aveva da dirmi ma io non avevo più tempo per lei e ogni sua menzogna.
Mi chiusi nella cameretta dove ero cresciuta, un rifugio a questo punto malsano. Raccolsi vestiti dall'armadio infilandoli in modo disordinato in una valigia smisurata, strinsi tra le braccia il mio pupazzo e decisi di portarlo con me. Poggiai più volte lo sguardo su una foto di famiglia appesa al muro: mia madre che si cingeva a mio padre ed io tra loro, con una bambola in mano,sorridevo spensierata.
La staccai dalla parete e con un sorriso affranto la gettai nella valigia per poi richiuderla senza troppi ripensamenti. Stavo per uscire dalla stanza quando un senso di colpa mi fece indugiare.
Allora, per rimediare, presi un foglio dalla scrivania e una penna nera dall'inchiostro sbiadito e scrissi poche ma chiare frasi:

Mi dispiace lasciare questa casa e,anche se mi duole ammetterlo, anche abbandonarti. Sai che non sono mai stata una figlia affettuosa, mai ti ho detto "ti voglio bene" ma sai che è così. Vorrei poterti perdonare per ciò che mi hai fatto ma proprio non posso. Ciao mamma, a presto."

Fatto ciò infilai degli stivali  pesanti e di qualche numero più grande e abbandonai per sempre quella casa, le impronte che mi lasciai dietro erano proprio quelle di mio padre.
Non volevo immaginare un futuro per me, per la verità, proprio non ci riuscivo. Non mi voltai indietro mentre attraversavo il giardino di casa con ampi passi.
Sentivo il respiro ansimante di mia madre che mi seguiva a fatica farsi sempre più lontano e impercettibile.
Come fosse un flashback all'interno di un film, i miei occhi videro mio padre chiudere la portiera del suo pick-up e accelerare, lasciando mia madre a singhiozzare con la sua fede stretta in pugno.
Io guardavo la scena senza comprendere dalla soglia della porta credendo sarebbe tornato, come ogni volta, che dopo tremende litigate uno dei due andava a dormire fuori salutandomi con un bacio sulla fronte. Non erano certo completamente consoni ma un divorzio all'epoca sarebbe parso ben più scandaloso di qualche disputa tra coniugi.
Sfortunatamente,dopo quel pomeriggio freddo e piovoso non ci fu più una famiglia al mio fianco. Trascinai la valigia pesante sulla ghiaia bagnata piangendo di rabbia. Nulla avevo da perdere nella mia città natale.
Non avevo mai avuto amicizie importanti, devo ammettere di essere sempre stata molto restia dal parlare delle questioni private, e anche quando mi prestavo a qualche rivelazione sul mio passato,che non riguardasse situazioni divertenti o la sfera scolastica, nella quale avevo spesso brillato , rimanevo sempre sul vago evitando di scendere in scomodi particolari.
Avevo frequentato una scuola elementare mista con tanti bambini di diverse età, poi avevo preso la decisione di spendere i miei risparmi in un'istruzione più all'avanguardia.







Nonostante il quadro completo della situazione non era mia abitudine mettere in cattiva luce i miei genitori, certe questioni private erano destinate a rimanere tali per ovvi motivi, ma di ciò, in seguito,ci sarà certamente modo e necessità di parlare.
La scuola sebbene mi avesse fornito numerose possibilità e soddisfazioni non era per me un luogo felice.
Prendendo atto di ciò che continuavo a ripetermi,con un sospiro profondo sollevai la valigia e la legai accuratamente sui sedili posteriori insieme al mio zainetto viola, un bagaglio emotivo più che funzionale.
Sentivo le mani di mia madre sulla portiera del passeggero: "Ti supplico Elvira, non abbandonarmi come ha fatto tuo padre!" Non riuscii e voltarmi per guardarla, la famigliarità della situazione era per me un dolore troppo pesante da sostenere. Senza esitare ulteriormente premetti il piede sull'acceleratore.
Ogni metro di quella strada pareva prendersi gioco di me riportandomi alla mente giornate così lontane da poterne percepire solo la sensazione di nostalgia. Accesi la radio per smettere di riflettere su decisioni già prese e meditate. Una melodia piacevole prese il posto dei miei pensieri per tutto il tragitto fino a quando giunsi all'aeroporto con  una pioggia insistente che batteva sul cruscotto della mia vecchia Ford nera. Con gesti meccanici sollevai il cappuccio della felpa e mi guardai intorno.
L'aeroporto era molto grande e colmo di gente dalle emozioni contrastanti: chi salutava nostalgico con parole tremolanti e chi entusiasta correva tra le braccia di chi era lì per attenderlo. Non mi rivedevo in nessuna delle due tipologie di passeggero.
Per mia fortuna la donna che mi accolse alla reception fu molto gentile e comprensiva, mi mostrò gli orari dei voli e mi spiegò i protocolli e le regole del volo.
Ovviamente mi ero vista costretta a rivelare che per me era la prima volta su un aereo poiché anche se avessi omesso questa parte dalla mia presentazione senza dubbio lo avrebbe intuito dal mio atteggiamento timoroso e incerto.
Camminando verso quella che sembrava la sala d'attesa di un pronto soccorso scrutai il mio riflesso allo specchio: gli stivali  seppur consumati avevano salvato i miei jeans e sbiaditi dalla pioggia battente, per quanto riguarda il mio volto, il suo aspetto non era dei migliori. Apparivo stanca e i segni del pianto erano come inguaribili cicatrici. Poco importa. Me lo ripetevo di continuo per smorzare il senso di imbarazzo.
Una volta sull'aereo caddi in un sonno tanto profondo che al mio risveglio confuso pensai di essere giunta nell'aldilà .
"Benvenuto in Transylvania" stava scritto all'entrata.
L'aeroporto dove scesi era molto piccolo e non riconoscevo parole o volti. Non mi restava che dar prova del mio inglese scolastico, siccome parlare in rumeno mi ricordava eccessivamente mio padre, e tentare di recuperare la mia valigia.

"Signorina temo ci sia stato un errore nel trasporto del suo bagaglio.
Ci deve scusare ma sfortunatamente nel database risulta smarrito. Le verrà fatto un reso."

Queste furono le parole che mi ronzarono in testa per tutto il resto dell'attesa per un taxi.
La sorte non poteva che essermi avversa.
Proprio mentre pensieri di questo tipo disturbavano il mio animo già irrequieto vidi un'auto avvicinarsi velocemente e poi fermarsi frenando bruscamente.
Sarò al sicuro. Pensai prendendomi gioco di me stessa.
L'uomo si presentò come Dumitri, nonché l'autista con il quale avevo parlato poco prima. Ben presto però smise di rispondere alle mie domande guardandomi dubbioso.
Eppure al telefono era parso molto spigliato nel parlare tedesco, avevo persino pensato fossimo compaesani.

"Dove andiamo?"

mi domandò in inglese concentrandosi su ogni parola come se dovesse cercarla all'interno di un vocabolario immaginario.
Non nascondeva la scocciatura che gli arrecava la mia esitazione, picchiettava nervosamente le dita grossolane sul cruscotto e mi lanciava occhiate poco amichevoli dallo specchietto retrovisore.
I suoi occhi erano così chiari che per un attimo pensai fossero lenti a contatto, non potei evitare di notarlo.
Dopo aver frugato per alcuni minuti nello zaino, tutto ciò che mi era rimasto, ne estrassi un foglio stropicciato.
Ripetei a pappagallo ciò che vi stava scritto:

"Casa Stoica all'indirizzo-"

ma l'uomo dopo un chiaro segno di sorpresa mi interruppe con un cenno e partì a tutta velocità  senza dare spiegazioni.
Percepii la tensione dell'uomo; il suo modo di fare svogliato e arrogante era totalmente scomparso.
Sorrisi di soppiatto di fronte alla sua improvvisa professionalità, tuttavia qualcosa mi faceva presagire nulla di positivo da questo cambio repentino.
Passai i minuti successivi a godermi il paesaggio montano fuori dal finestrino e mi feci coraggio.
Mi avvicinai con garbo al sedile del guidatore per chiedere informazioni, questa volta parlai in rumeno per risultare più amichevole:

"Mi scusi signore, conosce per caso la famiglia dove sono diretta?"

L'uomo sembrava preoccupato, mi chiesi se ci fosse qualche problema con la strada.

"No signorina, sono desolato."

Riconobbi l'accento tedesco e il tono piatto nel ripetere una frase che sembrava abituale per lui dell'uomo al telefono. Doveva avermi riconosciuta.

"È una famiglia molto conosciuta in paese, non da me personalmente."

Si limitò ad aggiungere, per poi lasciar calare nell'abitacolo dell'auto un silenzio imbarazzante. Attraversammo un paesino molto carino e ben tenuto.
La gente del posto, principalmente contadini o donne addette alla famiglia, vestivano con abiti decisamente d'altra epoca, come se il tempo si fosse fermato. Guardavano incuriositi l'auto dove viaggiavo, i più curiosi scrutavano gli interni e vedendomi, con capelli neri come la pece e lisci come seta contornare un volto pressoché uguale al loro mostravano nuovamente espressioni annoiate  e tornavano con nonchalant alle loro faccende.
In aeroporto avevo cambiato i miei vestiti zuppi di pioggia acida e scura indossando un lungo vestito verde scuro, tutto ciò che ero riuscita a trovare, seppur colmo di pieghe, raggomitolato sul fondo del mio zainetto.
L'unica fortuna che mi era stata riservata quella giornata.
Il pensiero di presentarmi con vestiti da viaggio alla famiglia ospitante mi metteva a disagio, perciò anche nella situazione caotica in cui avevo preparato i bagagli avevo preparato l'occorrente schiacciando frettolosamente il mio abito preferito tra i miei effetti personali.
Mi sentivo una principessa della foresta, una visione romantica di me stessa che talvolta mi concedevo guardandomi con aria critica e fugace in uno specchio.
Strinsi tra le mani il mio libro fantasy preferito e un piccolo libricino sulla storia romena.
La reazione dei paesani al mio aspetto poco convenzionale mi ricordava in qualche modo la disapprovazione di mia madre ogni qual volta mi presentavo a lei in questo modo.
Ogni mattina la sua reazione era la medesima, come fosse destinata ad essere per sempre "la prima volta".
Mi voltavo furtivamente dubitando di me stessa ogni volta che ciò accadeva, divorata da verace insicurezza.
Lasciandoci alle spalle il piccolo paese e la sua gente, l'autista proseguì con passo persino più veloce di prima per boschi e foreste, nel frattempo il sole calava lasciandoci prede del crepuscolo e delle creature della notte.
Tuttavia nella penombra la vidi.
Sul punto più alto e isolato di una collina spoglia di vegetazione ma circondata da boschi selvaggi vi era una villa di modeste dimensioni, poco più lontano di un cimitero decisamente abbandonato al suo tempo assai lontano da quello presente.

"Gli Stoica sono una famiglia molto riservata ma si troverà bene signorina, addio."

Disse l'uomo quando venne aperto il cancello di ferro scuro della casa.
Lo salutai con un cenno di mano e un leggero sorriso. Non vi era un alito di vento ma il freddo pareva così acuto da penetrare persino nelle ossa. La vista che mi si prospettava era senza dubbio suggestiva e misteriosa.
L'abitazione vittoriana della famiglia necessitava di manutenzione, come anche gli esterni,colmi di rovi e statue coperte da muschio spesso e umido. Alzai lo sguardo seguendo i rami secchi di un'imponente  quercia spoglia.
Le finestre non lasciavano trasparire segni di vita dall'interno della casa, se non per una finestra all'ultimo piano, dalla quale si lasciava intravedere la luce flebile di una lampada ad olio. Una famiglia d'altri tempi.
Camminai con passo elegante verso  porta di noce così grande da intimidirmi, ripentendo a me stessa ciò che sarebbe stato opportuno dire nella mia formale presentazione.
L'accordo con l'agenzia per l'Erasmus era chiaro: la loro ospitalità, in cambio di lezioni di tedesco; non avevano specificato per chi fossero state richieste e incluse nel contratto, e qualche lavoretto manuale in casa.
Temevo sarebbe stato molto più di "qualche lavoretto" una volta di fronte all'imponente abitazione.
Solo due alti gradini di marmo nero come le penne di un corvo mi separavano dalla mia nuova vita.
Non mi restava che bussare su quel pesante portone. Per un'ultima volta mi guardai intorno spostando solo lo sguardo da una balaustra all'altra.
L'intera casa era costruita in solidi mattoni, o almeno così mi sembrava.
In effetti non posso vantare le mie conoscenze in questo campo, avevo scelto una facoltà di tutt'altro tipo.
Storia, presso la sede universitaria di Brașov. Fino all'ultimo, mia madre in particolare, aveva tentato di dissuadermi. Il suo desiderio per me, sarebbe stata la facoltà di lettere. Dal primo giorno in cui impugnai una penna non smise di ripetermi quanto quel movimento mi si addicesse.
Sperava seguissi le sue orme e diventassi una professoressa.
Come spesso accade, le nostre aspirazioni per il futuro non coincidevano e questo, ci portò ad una lenta rovina del nostro rapporto madre-figlia. In ogni caso, non aspettavo altro che conoscere la mia famiglia ospitante e la gente del posto.
Ad ogni modo, notai un balcone proprio in cima alla casa a cui si accedeva da una piccola porta a finestra da cui proveniva l'unica luce accesa e mi domandai se il resto della casa fosse abitata.
La struttura della casa era piuttosto lineare infatti, fatta eccezione per una sorta di torre che dominava la collina e i giardini che la circondavano.
La zona era piuttosto selvaggia, non si poteva inoltre dire che uno dei suoi pregi fosse la solarità.
Proprio dietro la casa, al di là di una bassa staccionata in ferro battuto vi era un cimitero vittoriano che mi immaginai fosse abbandonato come anche la sua cappella privata.
Una brezza gelida si insinuò tra le mie gambe alzando prepotentemente la gonna del mio vestito fino alle ginocchia e poi sopra i fianchi. Mormorai imprecazioni che a distanza di così tanto tempo non ricordo ma venni interrotta da un suono metallico fin troppo riconoscibile: una chiave era stata inserita nel portone della casa e ora quest'ultimo era in procinto di aprirsi nel momento più sbagliato che ci sarebbe mai potuto essere.

"Buongiorno cara, entra." 

Una voce così angelica, quasi ultraterrena mi lasciò senza parole.
Quando vidi il suo volto lo stupore fu palese.
La ragazza che mi aprì mentre tentavo di domare la lunga gonna era a dir poco stupenda.
Mai avevo visto occhi così grandi e lucenti ma allo stesso tempo scuri come legno di noce e profondi come gli oceani tempestosi. Scorgendo la mia reazione palesarsi sorrise coprendosi con la mano snella e delicata i denti.
Eppure, notai in quel breve secondo, riflettevano la luce per quanto bianchi.
Non appena  tentai di mettere a fuoco la sua dentatura la ragazza socchiuse le labbra carnose e con la mano mi fece cenno di entrare.

"Che sbadata che sono! Perdonami, ho dimenticato di chiamare il nostro maggiordomo Orazio per aiutarti con i bagagli."

Di nuovo sorrise, questa volta però ero troppo sconvolta dalla bellezza del luogo per farci caso.
I soffitti erano alti come quelli di una chiesa, a cassettoni, coperti di carta da parati rossa e pannelli in legno opaco. Rimasi colpita dalla bellezza d'altri tempi del luogo e dalla quantità di librerie stracolme, così  alte da intimidire ogni visitatore che varcava l'ingresso.
Ma ora come ora, ripensandoci, dubito avessero questo tipo di problema.
Dalla scala imponente di fronte a me scese un uomo ben vestito, sulla cinquantina, mi salutò con un breve inchino e sistemandosi un monocolo particolarmente scenografico si prese a carico le mie valigie scomparendo nel buio del secondo piano.
La ragazza fece una giravolta come a dimostrare senza un filo di ostentazione la sua innata eleganza.

"Come ti sembra?"

Come mi sembrava? Quella casa era semplicemente favolosa. Ogni oggetto al suo interno sembrava fatto su misura.
I quadri tappezzavano ogni parete lasciata vuota dalle librerie con le loro cornici grossolane e i soggetti curati nel dettaglio.
Ciascuno testimoniava la personalità della famiglia. Fremevo all'idea di scoprire le altre stanze ma cercai di apparire cordiale e pacata.

"Questa casa è fantastica. Hai un gusto  impeccabile."

La ragazza, di cui ancora non avevo appreso il nome, sembrava lusingata.

"Mi chiamo Dumitra, comunque."

Che nome particolare. Rimasi interdetta poiché temevo di essere parsa maleducata, ricordai di non essermi presentata tra una sorpresa e l'altra.

"Io sono Elvira."

Dumitra sgranò gli occhi. Forse tentare di blaterare qualche parola in rumeno, difronte tanta ansia e poca pratica recente, non era stata una scelta così azzeccata, chissà con che pronuncia storpiata avevo parlato, chissà cosa avevo detto involontariamente per lasciarla così stupita difronte ad una semplice presentazione.

"Tuo padre è rumeno. Oh Elvira, andremo d'accordo, me lo sento."

Mi sforzai di sorridere nonostante la fitta al cuore che mi aveva provocato il sentir parlare di lui a così poco dalla sua scomparsa.
Evitai di dirglielo, temevo di farla sentire in colpa. Odio arrecare anche solo il minimo sentore di dolore o ancor peggio imbarazzo alle persone, in questo, somiglio poco ai miei famigliari.
Dumitra mi fece sentire subito a mio agio.
Si complimentò con me riguardo il mio vestito e persino riguardo il mio rumeno decisamente mancato.
Era gentile a tal punto da farmi sentire in difetto, sembrava una cosa naturale per lei.

"Ti mostro la casa Elvira, spero vivamente che tu ti possa sentire a casa con noi."

Con "noi" intendeva forse lei e Orazio, il maggiordomo? Abitava qualcun'altro nella casa?
Mi limitai a questioni pratiche come lo stendere i panni o l'accendere i fornelli nelle domande. In primo luogo, queste erano le conversazioni che mi ero preparata a tavolino per evitare strafalcioni con la loro lingua, in secondo luogo, temevo di sembrare sfacciata.
Dumitra era tanto gentile, eppure non si sbottonava mai, non scherzava, non si comportava da giovane ragazza quale era, avrà avuto non più di diciotto anni. Non volevo sembrare inopportuna, tutto qui. Mi mostrò la cucina, spaziosa come quelle nei telefilm Hollywoodiani ma capace di conservare un aspetto ottocentesco e vissuto. Amavo lo stile gotico del mobilio e dell struttura stessa, nonostante fosse un po' macabro e antico per i miei gusti.
Poi, attraversato il lungo corridoio tempestato da cimeli di famiglia, Dumitra chiamò Orazio e fece aprire le porte della sala da pranzo, dal fascino altrettanto palese e regale.
Mi mostrò poi il grande salone invitandomi a testare di persona i divani rossi in velluto morbido e pregiato. Infine mi accompagnò al piano superiore.
"Questa è la mia stanza, quella accanto è la tua. Chiama me oppure Orazio se hai necessità particolari. Solitamente per pranzo ci riuniamo nella sala che ti ho mostrato prima, a mezzogiorno e tre quarti. Perdona la formalità, sono una ragazza d'altri tempi."

Rise di gusto poggiando il suo braccio magro sulle mie spalle con fare amichevole. Si comportò come una cugina lontana, mi sentivo più a mio agio con lei. Ci ritirammo ciascuna  nella propria stanza e devo ammettere di essere rimasta profondamente colpita dal fascino del letto a baldacchino,dagli armadi dai mille scompartimenti e cassetti colmi di vestiti nuovi ed eleganti.
Dumitra aveva un gusto indiscutibile, non cessava di mostrarlo in ogni piccolo dettaglio. Il materasso era alto e comodo come una nuvola, tanto che mi addormentai e caddi in un sonno piacevolmente profondo e rigenerante. Sognai viaggi mai fatti, scoperte scientifiche a mio nome e paesaggi suggestivi, infine mio padre. Il suo modo di fare premuroso ma severo. Ai giardini pubblici da bambina mi scrutava da lontano, attento ad ogni piccola mossa, aveva sempre avuto un senso protettivo spiccato nei miei confronti. Sognai mio padre ricordando così  ogni suo piccolo difetto o dettaglio. Ogni ruga, ogni lacrima, ogni rancore. Poi, d'improvviso, mi svegliai di soprassalto.
"Knock, know-" Mi alzai con forza sollevandomi a sedere. Le nocche sbattevano sulla spessa porta con un rintocco, indossava anelli o forse reggeva qualcosa in metallo.
I soffitti alti rendevano la stanza estremamente fredda ma non dispersiva. Avrei voluto rispondere e cessare sul nascere quel fastidioso rumore a fermarmi però, fu la mia titubanza riguardo il relazionarmi con Orazio. Con lui Dumitra si mostrava cortese ma pur sempre distaccata, forse, per mantenere quel grado di professionalità tipico della servitù fino alla prima metà del novecento?
Senza dubbio un'attitudine di altri tempi. Mi incuriosiva e mi metteva a disagio contemporaneamente, speravo non lo notassero. Mi resi conto, in preda all'ansia, che ignorare il maggiordomo saltellando per la lugubre stanza ,nel buio più profondo, alla ricerca di una vestaglia non sarebbe parso un comportamento maturo. Ma d'altronde, occhio non vede, cuore non duole.
Finalmente, dopo aver fatto cadere un silenzio assordante, un tale silenzio da percepire il mio stesso battito, mi assicurai di avere Orazio dall'altra parte della porta ad attendermi e, infilata una vestaglia regale, aprì.
Come se fosse congelato mi rivolse la medesima espressione apatica, un sorriso appena accennato e lo sguardo perso nel vuoto, che occhi particolari.

"Buonasera signorina, le ho portato la cena."

Mi porse un vassoio argentato da cui si percepivano mille fragranze diverse, mi venne l'acquolina in bocca ma non lo diedi a vedere. Volevo essere all'altezza di quella casa a qualsiasi costo.

"La ringrazio Orazio, buonanotte."

Ribattei imitando goffamente il suo tono moderato. Dopo essersi congedato con un accenno di inchino teatrale e un sorriso quasi sincero richiuse la porta dietro di se. Apprezzai quella dimostrazione di umanità, speravo fosse nata di sua spontanea volontà e che non fosse una reazione al mio imbarazzo mal camuffato, chi lo saprà mai.
Che bontà. Piatti tipici di ogni sorta, dall'antipasto al dolce. Con la pancia piena e le papille gustative in estasi mi lasciai cadere di schiena sul morbido materasso tracciando angeli immaginari sul copriletto. Mi sentivo la protagonista di un romanzo, un vero sogno. Socchiusi gli occhi, decisamente per poco.
Sentì in lontananza scarpette battere sui pavimenti in marmo, passi leggeri, come se saltasse. Dumitra girava per casa trotterellando come un pony agitato? Sghignazzai al pensiero e aspettai che bussasse, niente. Forse si trattava di Orazio.
Dubitai di quel pensiero scrollando energicamente la testa. La curiosità mi pervase come accade per i bambini, mi alzai senza pensare alle conseguenze e spalancai la porta della camera con aria disinvolta. Non vidi nessuno. Poi, concentrandomi sul buio del corridoio in lontananza vidi una figura femminile, troppo bassa per essere Dumitra. Indossava scarpe dal tacco altissimo per essermi parsa tanto più alta poco prima.
Il buonsenso mi suggeriva di abbandonare il corridoio e tornare nella mia stanza, controllare i miei piani per i giorni successivi, riposare.
L'istinto però, mi suggeriva di addentrarmi nel buio del castello ed esplorare le stanze senza lo sguardo incessante della padrona di casa. Mi rimproverai per quel desiderio, mi sentivo scortese solamente per averlo immaginato.
D'altra parte però, necessitavo del bagno, sarei dovuto uscire in ogni caso.
Quella villa era così misteriosa, così ipnotica. Era capace di attrarre a se come un uomo dal fascino spiccato, la sentivo chiamarmi a se.Mi era sembrato un pretesto plausibile nella foga del momento.
Realizzai che non potevano essere più che le 8 o forse le 9 di sera viste le circostante, forse avrei trovato Dumitra.
Sotto la luce debole luce di una torcia  la casa era diventata un labirinto. Le cose si facevano sempre più complicate per me, nemmeno questo però sembrava abbastanza per convincermi a rientrare e abbandonare quella missione insulsa.
Dopo aver attraversato il lungo corridoio colmo di quadri e oggetti strani mi ritrovai davanti due porte. La prima, a sinistra, somigliava ad un portone d'ingresso di un castello. Era tutto così fiabesco.
La seconda, più piccola e alta, mostrava le stesse rifiniture di quella della mia camera. Non mi azzardai ad aprire la seconda porta, ero quasi certa si trattasse della stanza di Orazio, andando ad esclusione. Piuttosto, mi guardai intorno finché non fui certa di aver memorizzato il luogo, così che sarei potuta tornare senza intoppi alla "base" e poi ad occhi chiusi entrai nella prima stanza, per sicurezza suppongo.
Anche a palpebre calate non vidi luce, era buon segno, nessuno era lì.
Solo allora puntai la torcia sulle mura roteando lenta su me stessa. Finalmente riconobbi la stanza. Si trattava dell'ingresso del piano superiore.
Avanzai, per un secondo mi si mozzò il fiato. Il mio piede, già limitato dalle ciabatte tutt'altro che comode, seppure del mio numero, percepì il vuoto. Barcollai cercando un punto di appoggio. Oh, ringrazio il cielo per quella ringhiera in legno massiccio che mi diede appoggio. Scesi le scale furtivamente. Non stavo facendo nulla di male, nonostante ciò, muovermi senza la supervisione della proprietaria di casa alla ricerca del bagno mi faceva sentire in difetto.
La scalinata mi sembrò infinita; arrivai al piano inferiore con il fiato corto e il respiro pesante che cercavo di soffocare. Come la protagonista di un film d'azione, mi muovevo con astuzia scenografica nel buio.
Mi domandai come facevano a percorrere quelle scale più volte durante le loro giornate. Beh, ben presto avrei avuto occasione di scoprirlo io stessa. Finalmente, difronte a me vidi il bagno.
"È stato facile!" Sussurrai tra me e me uscendone vittoriosa.
Mi scontrai con qualcuno nella penombra. Ne percepì l'alta statura e i movimenti scoordinati.
"Orazio, Dumitra?" nessuno rispose. Non pensai, non volevo farlo. Sentivo il sudore colare sulle mie tempie, poi sul collo ad incollarmi i capelli.
"Chi c'è?" Azzardai di nuovo. Poi però, senza farmi ulteriori paranoie sul galateo me la diedi a gambe. Girai la chiave più volte nella serratura della mia camera,ripetei la procedura più volte con attenzione maniacale. Non riuscì a prendere sonno.
Odiai dare ascolto al silenzio, mi ricordò di mio padre, adagiato su un tavolo verdastro dell'obitorio. Passai la notte a girovagare sul web passando di video in video come quando il mio patrigno faceva zapping sulla TV del salotto.
"Benvenuti in un nuovo video!" Esclamava la ragazza bionda sullo schermo. Sentì quella frase almeno una dozzina di volte, dopo un'infinità di video che mai avrei guardato se non quella sera,
scorsi un raggio di sole trasparire dalle tende e mi illuminai.
In che razza di posto ero finita? Chi possedeva case,abiti e collaboratori domestici del genere nel nostro secolo? L'uomo che mi aveva accompagnata qui in taxi, per poi sparire nella nebbia senza che me ne accorgessi, mi aveva confessato che persino lui era da sempre stato incuriosito dagli Stoica. In paese tutti li conoscevano a causa del loro stile di vita estroso e singolare, "nel rispetto delle tradizioni della famiglia e della casa!" aveva esortato Dumitra indicando la sua gonna voluminosa. Non erano i soli a vivere con sforzo d'immaginazione in altre epoche. Scoprì presto che era usanza delle famiglie nobili e benestanti farlo per poi accogliere turisti o curiosi all'interno delle proprie case.
Avevo sempre gradito la quiete notturna, ma non quella notte. Accesi ogni luce all'interno della stanza e frugai negli armadi. Mi vestì, mi truccai come facevo quando il sabato mattina ne avevo il tempo e poi indugiai difronte al paesaggio che mi si prospettava sporgendomi dalla finestra. La collina sulla quale sorgeva la casa e poco più in basso il villaggio era così alta da evitare la nebbia che ricopriva l'ignoto mondo sottostante. Estasiata, mi sentì come in paradiso e scacciai qualche malinconica lacrimuccia dal mio viso.
Col crescere avevo dato sempre più sfogo alla mia innata sensibilità, ora però era lei ad aver preso il mio posto. Pensai a come sarebbe stata la mia vita se i miei genitori si fossero amati un po' di più, se fossero stati capaci di insegnarmi ad amare senza timore.
Immaginai di abbracciare la me bambina, quanto avrei voluto colmare quel vuoto che percepiva e di cui si dava la colpa. Come poteva una cosa così negativa essere opera mia, avrei voluto che lo vedessero, ero solo una bambina. Ero sempre stata così dura con lei, con me, anche dinnanzi quegli occhi grandi colmi di lacrime riflessi in uno specchio fin troppo grande. Sospirai. La brezza leggera di quella mattina risvegliò la mia voglia di vivere quell'esperienza che definirei come, non saprei, decisamente inaspettata forse.
L'aria in qualche modo famigliare della Romania mi fece sperare in qualcosa di buono per me, e sarebbe stata anche ora.

"Apprezzo molto le persone mattiniere, ma ancor di più quelle riflessive. Anche io talvolta mi lascio pervadere con piacere dai pensieri" 

Disse dietro di me. Avevo forse lasciato la porta aperta? Mi voltai cercando di risultare il più naturale possibile, non volevo risultare sospettosa. Dapprima mi rivolse un sorriso amichevole, ma poi, come se qualcosa l'avesse colpita in piena faccia, si tirò indietro con chiaro imbarazzo sul volto e abbassò lo sguardo.

"Scusami tanto Elvira, non sarei voluta risultare invadente. Sai, si sono sempre occupati i miei genitori dell'accoglienza e ancora sono visibilmente inesperta-"

avrei voluto confortarla facendo una battuta potenzialmente squallida come faccio sempre nei momenti più delicati, le dimostrazioni d'affetto per me sono l'ultima spiaggia. Un raggio solare le illuminò il volto pallido e gli occhi per un secondo sembrarono quasi, mi imposi di non credere a ciò che avevo visto.
Rialzò la testa e mi scrutò con un'aria severa e distaccata.

"-fra poco Vanessa, la nostra cuoca migliore, preparerà la colazione. Ti aspetto."

E si congedò annuendo per poi addentrarsi nel corridoio.
Non badai particolarmente alle sue parole tuttavia, non potei non notare il linguaggio del suo corpo in estrema agitazione. Se non avessi saputo che gli unici a vivere nella casa Stoica eravamo io e Orazio, oltre a Dumitra ovviamente, avrei giurato di essermi sentita osservata da una terza persona, percepivo la sensazione di soggezione della mia coinquilina.
Mi guardai allo specchio senza disapprovazione, cosa assai strana, mi sentivo così travolta dai misteri di quella casa da non riuscire a pensare ad altro per l'emozione. Mi sentivo come la protagonista coraggiosa di una qualche leggenda metropolitana, ero pronta a cavalcare l'onda dell'avventura e dell'incertezza.
Infilai nella tasca il telefono con la fotocamera aperta, non si sa mai, direbbe mia madre strabuzzando i grandi occhi scuri.
Uscì dalla stanza saltellando come una bambina in un negozio di giocattoli. A dirla tutta con questa presunta bambina avevo una cosa in comune: anche io ero alla ricerca di qualcosa.
Ogni oggetto nella casa degli Stoica sembrava avere una storia travagliata alle spalle; c'erano spade, riproduzioni fin troppo accurate di vasi greci o forse etruschi, non ero mai stata portata a studiare granché la storia antica.
A scuola a tutti i professori era bastata un'infarinatura generale, trattavano l'argomento come un "problema degli avi", e avevo da sempre lasciato correre, ma ad oggi posso affermare con convinzione di essermi sbagliata.
Quanto avrei voluto conoscere la provenienza di quegli oggetti, il loro contesto temporale. Ma purtroppo ai miei occhi ancora inesperti, nonostante l'impegno che ci mettevo per ammetterne la valenza storica o artistica, parevano semplici cianfrusaglie. Camminando lungo l'interminabile corridoio perennemente nella penombra un particolare attirò la mia attenzione: un ritratto dipinto ad olio.
Il dipinto raffigurava una Dumitra ancora bambina, la riconobbi per il neo inconfondibile al di sopra delle labbra, insieme a quelli che pensai fossero i suoi genitori e sua sorella.
Gli stessi occhi.
Tutti e quattro i soggetti dell'opera avevano iridi di un marrone spento ma particolarmente saturato all'interno, incastonate in occhi profondi e all'ingiù. I tratti marcati dei loro volti asciutti dalle fattezze balcane o forse nordiche rappresentavano perfettamente lo stereotipo della famiglia benestante del rinascimento, ne rimasi colpita. Eppure qualcosa a questo punto nei  pensieri confusi che avevo appurato di notte non tornava. La convinzione delle mie conclusioni affrettate passò dall'essere un solido castello in mattoni ad uno fatto da sottili carte da gioco. Feci scivolare fuori dalla tasca con gesti innaturali il mio smartphone e scattai una foto. Cosa fosse accaduto alla famiglia di Dumitra forse sarebbe rimasto un mistero, almeno per oggi. La luce solare traspariva dalle finestre alte e libere dai tendaggi per poi perdersi nell'oscurità delle pareti.

"Buongiorno signorina!"

Per lo spavento mi venne persino il singhiozzo.

"Mi scusi, l'ho spaventata. Volevo solo accompagnarla da Vanessa, la nostra cuoca. Dumitra ha ordinato una colazione speciale per lei questa mattina."

Orazio era sempre impeccabile.

"Grazie mille, sono lusingata. Sono contenta di poter conoscere meglio la padrona di casa!"

Ed era vero, l'atteggiamento misterioso di Dumitra non poteva che intrigarmi, peraltro ero certa che la casa si sarebbe dimostrata una ramificazione della sua personalità, era un'occasione imperdibile di scoprirne qualcosa in più.
Intravidi del disappunto sul volto del maggiordomo.

"Purtroppo oggi Dumitra sarà fuori tutto il giorno. Tornerà questa sera in ogni caso."

Lo rassicurai, me la sarei cavata in qualche modo.
Inoltre Orazio parlava un tedesco molto fluente, un conforto notevole, per una studentessa, sapere di poter continuare a parlare la propria lingua madre almeno ogni tanto. Continuai a conversare con lui fino alla sala da pranzo, mi raccontò del suo viaggio in Germania, apprezzai la gratitudine con cui trattava il suo passato. La stanza alla luce del sole mi parse ancora più spaziosa del giorno precedente.
All'improvviso tra le mura della stanza rimbombò un suono metallico, poi lamenti, un trambusto notevole per le prime ore della mattina.

"Oh, povera me. Povera vecchia! Come farò?"

Orazio si alzò di scatto dalla sedia, si sistemò il gilet con la mano e si allontanò scusandosi per aver interrotto la conversazione.

"Perdonami cara, la signora Vanessa comincia a perdere la forza nelle braccia."

Mi alzai a mia volta, Orazio non provò a bloccarmi.
Dietro una porta in vetro veneziano rosso bordeaux appresi che si trovava la cucina. La stanza non era relativamente grande, non per casa Stoica, eppure tutto trovava il suo posto, tutto tranne le pentole che erano scivolate dritte dritte sulla donna scarna di nome Vanessa.

"Vanessa, sei troppo debole per lavorare!"

La rimproverò Orazio con molta confidenza, affetto azzarderei a dire.
La donna scosse energicamente la testa sistemandosi il grembiule.
Gli orecchini in oro tintinnarono a contatto con gli anelli di stampo italiano. Ciò giustificava la sua abilità ai fornelli.

"Ho bisogno di soldi caro Orazio."

Non c'era sarcasmo nel suo tono, solo rassegnazione.

"Signora posso aiutarla?"

Vanessa fulminò il collega con lo sguardo. A quanto pare non sarei dovuta essere lì, speravo non sarebbe stato punito a causa mia.

"Non è colpa di Orazio, ho scelto io di venire qui da lei e-"

mi prese la mano e sul volto le si disegnò un'espressione materna.

"Non ti preoccupare cara, accomodati di là."

Feci come aveva chiesto senza ribattere sentendomi rassicurata dal suo inglese misto a italiano e  stentato.
Tutti mi parlavano inglese o tedesco eppure io il rumeno lo conoscevo!
Mi sedetti su una delle nove sedie attorno al tavolo tondo, più che sedia una poltrona di lusso e attesi il pasto ammirando ogni dettaglio della stanza.
Vanessa mi servì una fetta di Cozonac, un dolce tipico a dir poco squisito, caffè caldo e aromatizzato e infine un vassoio fumante di Papanasi appena usciti dal forno.
Dalla cucina provenivano fragranze paradisiache, mi dimenticai persino della mia strana missione.
Passai il resto della giornata girovagando per i giardini che circondavano la casa e immortalando ogni novità con foto d'ogni tipo. Ormai il sole era in procinto di tramontare, la cena sarebbe stata servita nel giro di un quarto d'ora quando tornando a casa notai un'auto sulla soglia di casa.
Avrei preferito farmi trovare in casa da Dumitra, non ero una scansafatiche.
Decisi di tentare un piccolo escamotage, una classica ma d'effetto entrata dal retro. Sperando di trovare lì Orazio e un istante di distrazione da parte di Dumitra.
Girai sul lato percorrendo la casa fino alla porta sul giardino posteriore, entrai silenziosamente e attesi sulla soglia come se fossi lì da sempre.
Tirai un respiro profondo e mi aggiustai i vestiti un poco sgualciti e i capelli scompigliati per il vento.
Il sole oramai era scomparso, i raggi lunari era deboli e si infrangevano appena sulle rifiniture metalliche delle ringhiere.
Orazio proprio in quel momento camminò verso di me attraversando la stanza come un robot dalle mosse preimpostate. Nessuna emozione traspariva dai suoi movimenti meccanici o dal suo tono di voce assente.
Solo in seguito fui in grado di comprenderne il motivo.
Ancora oggi non saprei decifrare lo sguardo che mi rivolse quella sera di fine estate.

"Elvira, i Signori Stoica sono a casa."

I signori Stoica? Dumitra  non aveva mai parlato dei suoi genitori espressamente, non sapevo cosa mi sarei dovuta aspettare da una coppia altolocata ed elegante come loro. Il mobilio della loro abitazione parlava al posto loro.
Orazio agitava il corpo nei vestiti stretti, probabilmente tagliati per un uomo più giovane e in forma, forse l'Orazio di qualche decennio prima.  Anche io, fremevo per l'imbarazzo di non sentirmi all'altezza del loro status economico.

"Elvira, sii cortese con loro, non esageratamente amichevole, questo è chiaro, ma pur sempre garbata.-"

di colpo smise di parlare, lasciando che le parole rimbombassero tra le mura dall'atrio.

"-Se posso permettermi, sembra agitata cara, ma non ne ha ragione!"

Certamente qualcosa nel suo tono era mutato d'improvviso, tuttavia non ebbi il tempo di riflettere, una bambina dai capelli riccioluti e argentati mi si avvicinò con gesti amichevoli e disinvolti.
Il suo volto era quello di una bambina, ma le espressioni che lo corrucciavano la facevano percepire adulta. Con i suoi occhi grandi puntati, quasi ipnotici per via del colore aranciato delle sue iridi, mi salutò.

"Ciao Elvira, sono Oana!"

allungò la manina pallida, le sorrisi stringendole delicatamente la mano. Temevo di sarebbe rotta per quanto parevano fragili al tatto gli ossicini che sporgevano dal dorso scarno.

"Tu devi essere la mia insegnante di tedesco, non è così?"

Si sistemò il vestitino e saltellò allegra sulle ballerine in nero laccato applaudendo.
Annuì ricambiando quel sorriso a 36 denti, forse qualcuno di meno, i denti da latte davanti mancavano all'appello. Doveva essere molto piccola, non più di sette o forse otto anni.

"Non essere sgarbata Oana."

Giunse una voce autoritaria dall'ingresso accompagnata da un profumo femminile deciso e marcato.
Una donna sulla quarantina attraversò con eleganza quella che pareva una navata a causa del suo passo innaturale.
I capelli nero corvino raccolto in uno chignon ingombrante bilanciavano perfettamente l'imponenza del suo fisico minuto ma allungato. Riconobbi subito la donna a causa dei tratti marcati sul viso magro.
Quando vidi Il riflesso dei suoi occhi aranciati nello specchio ne fui certa: era la donna della foto.
Oana smise di muoversi diventando rigida come un morto. La donna si avvicinò con nonchalant giungendo alle mie spalle mentre scrutava compiaciuta la mia espressione imbarazzata riflessa nello specchio ancora difronte a noi.

"Benvenuta cara."

Sorrise, ma in qualche modo un sentimento negativo, una vera e propria aura di travolgente negatività intaccò il mio animo, una presenza a dir poco disturbante.
Tuoni e lampi scrosciavano il cielo sopra Villa Stoica, quali segreti mai avrebbero potuto nascondere mura così possenti e rassicuranti? La luce di un fulmine illuminò per pochi istanti lo sguardo della donna, un brivido percorse il mio braccio sinistro come fosse uno spiacevole segno premonitore.
Tornata in camera quella notte non chiusi occhio. Non era il temporale a disturbarmi, quanto più il silenzio assordante, era palpabile la tensione nella casa. La notte passò lenta mi paese quasi stagnante nella sua più assoluta e ultraterrena pace.
L'indomani aspettai la sveglia di Orazio e solo successivamente mi alzai per incontrare gli Stoica nella sala da pranzo. Ebbi tutte le accortezze del caso, dal trucco quasi impercettibile ma in grado di coprire profonde occhiaie ai capelli in perfetta piega. Inspirai fiduciosa varcando la soglia della porta pronta ad affrontare la mia famiglia ospitante.

"Buongiorno Elvira, hai dormito bene?"

Dumitra mi parse bella come al solito. D'una bellezza delicata tale da rendermi inquieta ogni qualvolta mi si presentasse difronte e non esagero di certo in questa affermazione.
Nonostante ciò qualcosa in lei era cambiato, il suo sguardo lasciava trasparire velata preoccupazione.
La finzione non faceva per lei.

"Per la verità ero troppo emozionata per poter dormire. Sai Elvira, ammiro molto la tua famiglia e spero di fare una buona impressione. Aldilà del mio lavoro qui, questo è ovvio."

Si morse il labbro inferiore con violenza, il canino le si macchiò di sangue scuro.

"Non avere preoccupazioni a riguardo, mia madre rimarrà colpita dalle tue abilità e mio padre apprezzerà la tua educazione."

Aveva un sorriso dolce a disposizione per nascondere il suo segreto.
Questo non sarebbe bastato però, ero decisa a conoscere persino le fondamenta di questa storia.

"Andiamo a fare colazione, oggi ci saranno piatti speciali!"

Mi strizzò un occhio mentre si leccava di soppiato  dal labbro che sanguinava oramai copiosamente.
Evitai di farci caso poiché temevo di metterla a disagio.
La luce traspariva dalle finestre formando colorati giochi di luce. Tutto era tranquillo, per il momento.
Sentì dei passi alle nostre spalle, Dumitra non sembrò darci peso, continuò a camminare allungando il passo.

"Elvira!"

Una vocina strozzata mi chiamò dal fondo del corridoio.

"Oh non farci caso, mia sorella Oana a volte può risultare invadente ma vuole solo fare amicizia con le ragazze più grandi."

Sorrise abbassando lo sguardo, poi per un cenno di mano quasi impercettibile Oana capì che era giunto il momento e si avvicinò abbandonando ogni discrezione. Non smise di parlare un attimo. Mi raccontò dei loro viaggi in Brasile, in Inghilterra, meta da loro prediletta, e addirittura negli Stati Uniti! Era una bambina sveglia e spigliata, era piacevole parlare con lei, sapeva coinvolgerti nelle sue emozionanti storie. Saltellava come una ranocchia per la stanza gesticolando energicamente anche solo per dire una parola.

"Sei proprio simpatica Oana!"

La bambina sgranò gli occhi con visibile sorpresa.

"Mi trovi simpatica! Oh è il complimento migliore che mi abbiano mai fatto."

Fece roteare la gonna del vestitino volteggiando su se stessa.
Osservai la bambina e vederla così esultante per un piccolo complimento mi rese felice a mia volta.
Anche Dumitra era compiaciuta, si stringeva nelle spalle mascherando un timido sorriso con la mano.
All'improvviso, i signori Stoica irruppero nella stanza senza badare a Oana o a Dumitra, ne tantomeno a me.
Si sedettero a tavola con aria infastidita. Dumitra sbiancò ma subito si ricompose come nulla fosse. Quando Oana si accorse della loro presenza ne fu così mortificata e imbarazzata che con una scusa si rifugiò nei giardini della villa per ore.
Il signor Stoica finalmente mi rivolse la parole schiarendosi la voce roca:

"Allora Elvira, parlaci un po' di te se. Spero di non essere indiscreto."

Il padre di famiglia mi sedeva di fronte con sguardo attento, nulla sarebbe sfuggito a quell'uomo di ciò che avrei detto, ne ero consapevole. Un profondo imbarazzo mi pervase nel momento più inopportuno, il coraggio mi abbandonò tutto d'un tratto lasciandomi indifesa sotto i suoi occhi vitrei.

"Dunque-"

mai mi era risultato difficile pronunciare anche solo una parole come in quel momento.
Anche la donna affianco a lui si girò.
Per una frazione di secondo mi paese di scorgere un ghigno sul suo faccino insensibile alla vecchiaia.
Le labbra macchiate dal rossetto rosso sembrarono corrucciarsi come a prendersi gioco di me, fu solo un attimo.

"Continua cara! Sono curiosa di conoscere una ragazza tedesca."

Mi esortò lei con occhi spalancati e compiaciuti. Non potei fare a meno di continuare difronte a tale insistenza.

"-come dicevo, sono originaria di una piccola cittadina nei pressi di Lubecca. Ho frequentato tutte le scuole qua finché-"

lasciai che la parola successiva si perdesse nell'eco della grande sala.
Abbassai la testa contemplando le mie scarpe, mi accorsi di una macchia su di esse, una macchia marrone che non fece che aumentare la mia sensazione di disagio.
Inalai il profumo dolciastro della signora Stoica, le percepì amaro nelle narici, mi annebbiò la vista. Vidi campi ricoperti di dolci e rosei ciliegi in fiore o forse aspre amarene ancora acerbe per questa stagione.

"Tesoro stai bene?"

Dumitra con le mani gelate mi reggeva il capo stringendo con delicatezza la mia chioma corvina tra le dita.

"Sono Oana, Elvira come ti senti?"

La sua vocina squillante mi rallegrò istantaneamente.

"Sto bene, perdonatemi. Credo di aver dimenticato le vitamine questa mattina, nulla di cui preoccuparsi."

Mentii.
Nessuno si rivolse più a me se non per chiedermi se il pasto fosse di mio gradimento, se le posate fossero quelle che usavo abitualmente, se avessi bisogno di alimenti particolari: insomma, nessuno osò più entrare nel dettaglio con me.
Orazio servì bevande e ottimi dolci a tutti, poi dalla cucina spuntò anche la cuoca che avevo conosciuto per reclamare i suoi meritati riconoscimenti.
Era una donnina minuta e graziosa, non era intimidita dalla bella presenza dei signori Stoica pur rimanendo composta e sulla difensiva.
Finita la colazione ognuno si ritirò nelle sue stanze.
Oana più volte mi si avvicinò per parlare e mi regalò persino una delle sue bambole di pezza per poi invitare la bambolina riccioluta e la sua nuova proprietaria, nonché io, ad un tè delle cinque nella sua cameretta.
Era una bambina così dolce e graziosa.
Percepì sulla punta della lingua un sapore finemente agrodolce che non conoscevo. 
Più che altro era la provenienza a lasciarmi interdetta, siccome non ricordavo di aver mangiato nulla che potesse provocarmi quella particolare sensazione.
I signori Stoica avevano lasciato detto a Dumitra di salutarmi da parte loro in quanto per affari lavorativi sarebbero stati fuori tutto il giorno.
Si erano raccomandati anche a Orazio affinché riposassi e lui, da buon collaboratore domestico d'altri tempi qual era, aveva preso la richiesta con molta serietà.
Mi disse più volte di rilassarmi e mi fece portare tisane e camomilla dalla cucina con punte di spezie locali.
Ero lusingata ma avevo altro a cui pensare.
Quel giorno avrei dovuto tenere la mia prima lezione di tedesco alle figlie degli Stoica e non avevo la più pallida idea di come muovermi con Dumitra. L'idea di darle lezione, proprio a lei che sembrava così autoritaria e matura, mi metteva a disagio.
Mi adagiai sul divano del salottino con un libro in mano, non ne lèssi per davvero le pagine profumate.
Per la verità, non avevo alcuna intenzione di leggere. Mi divertivo ad osservare di soppiatto Dumitra nascondendomi dietro la copertina.
La sua eleganza era innata.
Sbatteva le lunghe ciglia dorate con dolcezza come se quel minimo movimento potesse nuocere a qualcuno.
Mi sentivo così impotente difronte a tanta bellezza innaturale.
Abbassai il libro chiudendolo con decisione, lo riposi sul tavolino difronte a me è mi congedai dalla stanza con un timido sorriso.
Il sole splendeva come una lucciola in una scura foresta sotto i banchi di nebbia.
La collina su cui sorgeva Villa Stoica era paragonabile alla torre Eiffel per Parigi.
Risalirla un tempo, quando ancora le auto non erano neppure nei pensieri più nascosti del genere umano, doveva essere stato un vero e proprio problema.
Eppure la sua impotenza lasciava senza fiato tutti i visitatori che mi era capitato di incontrare andando in paese.
Le persone del posto erano cordiali ma estremamente caute, come se temessero potessi portare "la modernità" nella loro cittadina persa in tempi remoti, scenari dei più coinvolgenti romanzi ottocenteschi e oltre.
Sapevo lo facessero per i turisti, nonostante ciò, quegli abiti, quegli atteggiamenti, quei taboo, parevano essere loro molto più di quanto lo dessero a vedere.
Il paesino in cui mi ritrovai non aveva nulla diverso dall'ultima volta.

"Buongiorno."

Gridò una donna intenta a stendere panni da un balcone.
Non fu l'ultima a salutarmi calorosamente, tanto da farmi pensare fosse un'usanza del posto e forse è così.
La strada attraversava di netto la cittadina dandone una visuale pressoché completa.
Vidi un'insegna più colorata delle altre che attirò di conseguenza la mia attenzione.
Pasticceria.
Entrai senza troppe pretese,dopotutto si trattava di un piccolo negozio in un piccolo paese sperduto.
Mi divetti ricredere, quali delizie! E poi, quanta gentilezza per una semplice straniera qualunque.
Mi accolse una donna rossa di capelli sulla quarantina.
Aveva un fazzoletto d'un rosa sbiadito sulla testa e un vassoio di biscotti caldi tra le mani ancora sporche di farina.

"Vuoi assaggiare uno zuccherino?"

Non potei dire di no al suo smagliante sorriso.
Mi porse una scelta così variegata di torte, dolcetti, caramelle e biscottini da farmene perdere il conto.

"Mamma non vorrai farla stare male! Ogni volta che si presenta una nuova cliente è sempre la stessa storia."

Una ragazzina che non avrà avuto più di sedici anni si pulì le mani nel grembiule della madre e si avvicinò al bancone.

"Oh cara-"

Le sorrisi "Elvira, signora."

"Che nel nome Elvira! Avrei potuto pensarci prima. In ogni caso, lei è Jane, mia figlia."

La ragazzina scosse la testa spostando un ciuffo di capelli neri dagli occhi.
Era timida, goffa nelle presentazioni ma decisamente educata e gentile.
Teneva uno sguardo duro e intimidatorio sotto la frangia asimmetrica, uno scudo dagli sconosciuti e non solo che io stessa avevo adottato ma per un semplice fattore estetico.
Da dietro il bancone un gattino nero si arrampicò fino in cima e gli occhi di Jane si illuminarono.
Le labbra piccole ma carnose della ragazzina si scontrano con il muso soffice del micino.
Lei lo strinse tra le sue braccia annusando il suo manto candido, sapeva di zucchero filato
.

"Kitty deve essersi infilato in mezzo alle buste di zucchero, senti che buon profumino!"

Mi porse il gattino.
Kitty fece le fusa strusciandosi contro il mio vestito caldo.
Poi balzò sul bancone e si allontanò di nascosto facendomi sorridere. Jane lo rincorse chiamandolo.
Rimasi nuovamente sola con la signora della pasticceria che poco dopo mi chiese di chiamarla più semplicemente Symon.
Mi diede un vassoio colmo di ogni pasta a base di zucchero immaginabile, le promisi che sarei tornata.
Tornai a casa con il cuore in pace, serena e compiaciuta per le mie nuove conoscenze.
Il sapore delicato dello zucchero si depositò sulla mia lingua lasciandomi un retrogusto così piacevole che per un attimo chiusi gli occhi per godermelo a pieno.
Un'auto sterzò di colpo. Un clacks on ruppe il quasi totale silenzio del luogo, le cicale smisero di cantare o forse fu una mia sensazione.
I suoni vennero attutiti dalle mie orecchie come colme di ovatta, solo un fischio continuava a disturbarmi con insistenza.
Vidi un cofano troppo vicino al mio petto. Un sapore metallico riempì le mie guance e lo zucchero si sciolse lentamente nel grumoso sangue. Non ricordo nulla di quegli attimi, se non quel sapore tra il dolce e l'amaro sulla punta della lingua. Mi risvegliai di mia spontanea volontà, se così possiamo dire.
La prima cosa che i miei occhi scorsero dopo quel lungo pisolino fu un soffitto affrescato e nella penombra.
Tentai di guardarmi intorno, quella non era Villa Stoica, assomigliava ad una taverna elegantemente arredata, ma pur sempre una taverna.
Sentì le mie forze venire meno, persino muovere lo sguardo mi causava dolore.
Il mio cuore pulsava con insistenza nel mio collo bagnato.
Qualcosa su di esso stava scorrendo copiosamente.

"Hai finito? Non possiamo mica farle dimenticare tutto."

Erano lievi sussurri quelli della ragazza, quasi impercettibili che nelle mie orecchie si amplificarono, percepivo il respiro ansimante di lei.
Nessuno rispose alle sue parole o forse semplicemente non le udì, questo non lo potrò mai sapere.
Caddi nuovamente in un sonno abissale che mi paese incessante.
Un susseguirsi di sogni lucidi occupò la mia mente. Tentai di toccare ciò che in sogno appariva, di sfiorarlo che la punta della dita, ma questo spariva al mio tocco disssolvendosi.
Erano sogni tremendi, sogni capaci di mozzarmi il fato facendo pressione sul mio petto.
Questi mi terrorizzavano facendo reali i miei peggiori incubi, riportandomi agli occhi i miei peggiori sbagli, facendomi rimuginare su immeritati traguardi.
I sensi di colpa divoravano il mio animo approfittando della mia mente racchiusa nel sonno più profondo dei tempi.
Ero forse morta?
Mai mi ero sentita così viva nonostante mi sembrasse di percepire la vita scorrermi come granelli di sabbia tra le dita e sfuggire via.
Come potevo essere cosciente e morta contemporaneamente? Il cuore non pulsava più violentemente nel mio collo.
Si dice che quando si è in coma o perlomeno in fin di vita si possano vedere le porte del paradiso, una luce,un segnale.
Eppure io vidi solo sangue.
Solo maledetto sangue scendere a goccioloni da cascate.
Io vidi le porte dell'inferno; ma qualcosa mi salvò.
Delle braccia forti e avvolgenti mi strinsero, mi accostai al suo petto, non sentì il suo cuore battere.
La sua stretta fu famigliare, mi ricordò gli abbracci calorosi di mio padre alla me bambina e indifesa.
Non ricordo altro di quel sonno tremendo, so solamente che mi risvegliai nella mia stanza.
Percepì subito una pressione al collo, con un dito mi avvicinai a quella che pensavo fosse una ferita ma non notai nulla, nulla se non un piccolo livido violaceo.
Decisi che avrei chiesto spiegazioni agli Stoica ma imprudentemente non avvisai mia madre.
Semplicemente, scattai una foto dell'ematoma siccome non erano presenti specchi nella camera.
Non ebbi il tempo di guardarla per valutare la ferita che qualcuno bussò con insistenza alla porta.

"Avanti!" La porta si aprì cigolando, l'ospite stava indugiando.

"Elvira, come ti senti?"

La signora Stoica entrò nella mia stanza e mise occhiali dalle spesse lenti.

"Ho un forte bruciore al collo, una macchina mi è arrivata addosso mentre risalivo la collina e mi sono risvegliata in una taverna ma poi-"

La donna non si scompose ma notai le sue pupille dilatarsi velocemente. Di certo ciò che  avevo detto doveva averla turbata per qualche motivo.

"Cara, dopo l'incidente Orazio e Dumitra ti hanno portata nell'ospedale locale. A proposito di questo."

Mi porse un referto medico firmato da un certo Dott. Brunch che attestava la presenza di contusioni su collo e petto causate dallo scontro con una vettura ancora non identificata.
Prima di lasciarmi sola nella stanza la signora Stoica,il cui nome ho scoperto in seguito essere Eliana, mi disse che Dumitra mi avrebbe accompagnata ad una visita il giorno a seguire raccomandandosi di fare il nome del medico e di nessun altro.
La ringraziai per la premura e le promisi che così avrei fatto.
Durante tutta la giornata ogni membro della famiglia si preoccupò della mia salute.
Oana mi portò persino dei dolcetti mandati in regalo da Symon e Jane, che pensiero gentile, non le dimenticherò mai.
Presi tra le mani gli zuccherini, in fondo alla scatola scorsi un bigliettino sporco di glassa con su scritto: "Guarisci presto e fai attenzione, con tanto affetto dalla pasticceria del Centro!"
Fare attenzione alle auto era sicuramente un ottimo consiglio che avrei dovuto seguire con maggiore attenzione in futuro, forse non solo a quelle.
La giornata passò velocemente tra un pisolino e l'altro, tant'è che quando arrivò l'ora di dormire per davvero mi sentivo più sveglia che mai.
Augurai una buonanotte a tutti, Oana mi abbracciò ricordandomi del suo pomeriggio tra ragazze, e bambole, organizzato per l'indomani.
Attraversato il corridoio con il pigiama e una vestaglia simile ad un accappatoio nella speranza di passare inosservata.

"Oana non dovresti da essere a letto?"

Orazio si avvicinò con una torcia in mano, oltre ad essere il collaboratore domestico era anche il guardiano della villa a quanto pare.

"Scusami tanto Orazio, sono decisamente sbadata."

Orazio però mi interruppe facendomi segno di fare silenzio e mi strinse la mano.

"Devi fare più attenzione Elvira. Tu non conosci questo posto, anche io quando arrivai qui dall'Italia ne rimasi stordito. Ma ti consiglio di tenere gli occhi aperti cara ragazza."

Mi presi un secondo per osservare l'uomo. Quando non recitava la parte del maggiordomo accomodante e soddisfatto del suo lavoro il suo sguardo era spento e stanco a tratti persino disturbato.
I capelli grigi brillavano di luce propria ma sotto i raggi lunari che penetravano dalle finestre affrescate s'illuminavano d'argento.
Mentre parlava si guardava intorno furtivamente.
La luce della sua torcia puntata sul mio volto cominciava a mettermi a disagio, metteva a dura prova il mio sguardo.

"Ascolta ciò che ti ho detto Elvira, nessuno qua ti insegnerà come vivere perciò ricorda ogni mia parola."

Detto ciò scomparve nella penombra del corridoio di Villa Stoica.
Mi domandai se a nascondere più segreti qui fossero la casa o forse i suoi proprietari.
Ogni notte ai miei occhi quel corridoio in cui tutti scomparivano dopo una breve chiacchierata diventava interminabile, sconfinato e buio come l'universo.
Molto scenografico non è vero? Nel letto caldo e confortevole mi addormentai quasi immediatamente.
Le notti cominciavano a diventare sempre più fredde e autunnali.
Il vento impetuoso mi cullava con una sinistra melodia.
Il mattino successivo la nebbia era così fitta da nascondere tra le sue nubi persino il cimitero che sorgeva a pochi passi da Villa Stoica.
Mi svegliai di buon ora e spalancai la finestra non appena potei per contemplare quello spettacolo tanto suggestivo e singolare.
In Germania non avevo mai visto tanta nebbia.
La piccola proprietà di mia madre e del suo nuovo compagno si trovava nel centro della città e nemmeno durante l'infanzia avevo avuto il privilegio di vivere immersa in paesaggi naturali e incontaminati.
La finestra della mia stanza, oltre ad essere di modeste dimensioni, affacciava sul giardino più gradevole della casa: quello che confinava con la Laguna.
Questo era il nome che per comodità la gente del posto le aveva dato.
Sfortunatamente sino a quel momento non avevo ancora mai avuto modo di visitarla.
Tutti coloro che avevo incontrato, in particolare un ragazzo che faceva il commesso in un negoziato di alimentari, mi avevano sconsigliato di recarmi lì sola.
I motivi, una volta udita la descrizione del posto, mi furono presto chiari.
Victor, il ragazzo dell'alimentari, era stato molto chiaro nell'avvisarmi sulla presenza di malintenzionati.
Per la precisione, mi aveva parlato di una certa Helena, un'eretica, così definita dal resto dei paesani che viveva lì vicino.

"Helena avrà settant'anni, forse qualcosa di più. Per la verità nessuno sa granché di lei."

Victor mi sorrise mostrando profonde fossette.
Era un ragazzo veramente bello.
I suoi capelli biondi brillavano di luce propria, pareva un angelo; eppure la barba ben curata e la voce roca lo rendevano pericolosamente attraente.

"Mi piacerebbe tantissimo andarci ed esplorare le vicinanze. A dirla tutto non ho paura, posso arrivarci da sola."

Alla mia risposta da giovane donna orgogliosa qual ero Victor storse il naso e si rassegnò.
Abbandonò l'idea di spaventarmi per persuadermi e passò a ciò che gli riusciva meglio: far innamorare le giovani, e non solo, di se.

"È un posto stupendo sai? Se proprio ti interessa ti ci potrei accompagnare, a patto che tu non vada alla Laguna da sola."

Il mio cuore prese a battere come non mai.
Le sue premurosi attenzioni mi lusingarono a tal punto che accettai l'offerta.
Ero così giovane e ingenua, oh povera me, povera ingenua.
Avevo un cuore così fragile e desideroso di mancate attenzioni.
Nel frattempo, la giornata passò in un battibaleno.
A pranzo, come a colazione, i signori Stoica si congedarono ancor prima di accomodarsi a tavola e fu Dumitra a tenere alto lo spirito di ospitalità.
Un silenzio di tomba cadde nella stanza, l'imbarazzo era palpabile, decisi di fare perciò la prima mossa.
Mentre tutti mangiavano senza proferire parola mi feci coraggio e presi a raccontare.

"Oggi all'alimentari ho conosciuto un ragazzo che si è offerto di accompagnarmi alla Laguna.
Lo conosci Dumitra?"

Sistemai la mia postura e deglutì in attesa di una risposta.
Dumitra terminò di masticare con elegante lentezza il boccone di arrosto che aveva in bocca e poi mi guardò stupita.

"Hai già conosciuto Victor presumo."

Detto ciò la ragazza riprese a mangiare mostrando palese irritazione.
Persino Oana, intenta a dire qualcosa poco prima, si ammutolì di colpo.
Orazio servì la frutta e infine un dolce dalla cucina per festeggiare la fine della settimana.

"Oggi io e Oana andiamo ad una rievocazione storica. Ti va di venire?"
Poi anche la sorellina riprese a parlare:

"Sì Elvira, ti prego, ti supplico, vieni anche tu!"

Oana balzò giù dalla sedia e si inginocchiò ai miei piedi inchinandosi goffamente.
Quando acconsentì ad accompagnarle la bambina fu così felice che decise di disdire persino il rinomato appuntamento del tè delle cinque con le bambole pur di prepararsi al meglio.
La sera non si fece attendere e con essa anche l'invito delle ragazze.
Mi vestì di tutto punto spulciando con attenzione l'armadio che Dumitra mi aveva messo a disposizione.
Scelsi un vestito bordeaux con maniche a sbuffo e gonna voluminosa, misi persino la sottoveste! Dumitra infatti si era raccomandata a lungo riguardo l'abbigliamento.
Oana in preda all'emozione mi aveva spiegato a lungo la natura della festa e la l'importanza del circo nella loro cittadina.

"Pensa che alcune famiglie per l'occasione indossano ancora i vestiti che i loro antenati fecero fare per la prima edizione della festa!"

Poi con una corsa era andata nella sua cameretta, aveva svuotato l'armadio, questo lo intuì dai rumori che sentì dalla stanza accanto,  ed era tornata con un vestito in pizzo viola un po' troppo grande per lei.

"Non è proprio della mia taglia ancora, ma non abbiamo conservato vestiti di parenti della mia età purtroppo."

La rassicurai stringendo la sua manina fredda.

"Vedrai che ti andrà benissimo e tutti ti faranno i complimenti!"

La bambina mi guardò con gli occhioni chiari ancora lucidi dal riflesso dello specchio.
Tra una giravolta e l'altra arrivò l'ora di uscire di casa.
Anche Dumitra era bella e di classe nel suo vestito rosso scuro.
Notai immediatamente la somiglianza che aveva con la madre, quando glielo feci notare arrossì all'istante.

Il paese era stracolmo di visitatori, riconoscibili dagli abiti attuali e sbarazzini, e persone del posto che invece si erano impegnate notevolmente per apparire al meglio.
Le donne volteggiavano roteando pesanti gonnelloni mentre gli uomini in abiti aderenti e a vita alta le accompagnavano, alcuni persino sul calesse o a cavallo!

Dumitra mi parse compiaciuta dalla mia reazione  e mi mostrò con palpabile emozione ogni angolo della fiera.
Assaggiai centinaia di dolci e salatini, ballai al ritmo di musiche mai sentite prima, e cosa ancora più importante, ricevetti così tanti complimenti dai ragazzi di Brasov che non potrei, anche se mi sforzassi, ricordarlo tutti.
Ballai anche con Victor, fu così romantico danzare sotto la luna piena cullati da melodie così lontane nel tempo.
Tanti tinerilor, nonché "giovanotti" in Rumeno, così li chiamavano le anziane del posto, chiesero di poter ballare con me, solo allora compresi perché mio padre rimase così colpito quando conobbe mia madre.
Forse si trattava dell'accento o delle fattezze nordiche, in ogni caso, agli occhi di questi tinerilor ero una novità.

"Elvira cara!" Mi voltai poiché avevo riconosciuto la sua voce.

"Oh signora Stoica, questa festa è bellissima!"

"Chiamami Eliana tesoro. Sono contenta che ti piaccia! Dumitra ti ha già portata alla Laguna?"

Teneva in mano un bicchiere di vino rosso, le sue labbra rossastre contrastavano perfettamente l'incarnato pallido.

Perché mai dovrei andare alla Laguna di notte?
Ricordo di aver pensato.

"La Laguna è favolosa sotto la luna piena, un tempo, quando avevo la tua età, mi divertivo a passeggiare lungo le sue sponde."

Mentre la donna parlava a noi si avvicinò anche il signor Stoica e con lui anche un giovane ristoratore della fiera.

"Tesoro, lui è il marito di Symon, la pasticcera.
È tornato questa notte dall'Iraq. Ti ricordi?"

Eliana si rivolse a lui cambiando totalmente l'espressione del suo volto.
Il signor Stoica si avvicinò alla moglie porgendole uno zuccherino.

"Oh certo che mi ricordo! Signor Smith la vedo bene, complimenti, ho sentito che è diventato colonnello."

I tre cominciarono a parlare del più e del meno, io però, non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea di visitare quella Laguna.
Mi feci strada tra la gente.

"Permesso. Mi scusi, dovrei passare."

Inciampai sulla gonna di una ragazza poco più avanti e ruzzolai ai suoi piedi.
Cominciai a blaterare scuse tentando goffamente di rimettermi in piedi.

"Elvira! Ti sei fatta male?"

Jane mi si avvicinò timidamente porgendo la mano. Più volte la ringraziai per avermi aiutata, nessuno tra la folla sembrava avermi notata grazie a Dio.
Parlammo a lungo, mi raccontò della scuola, della sua passione per L'horror e delle sue origini americane.
Suo padre, il colonnello Smith, era originario del Tennessee, sua madre, Symon, del Texas.
Per il lavoro del padre erano giunti in Romania e quando ancora Jane era in fasce avevano acquistato una casa qui.

"Sai, sto leggendo un libro su una casa di fantasmi veramente affascinante, non riesco a smettere di leggerlo. Tu invece che progetti hai per questa sera?"
Parlava sdraiata sul prato bagnato, ci eravamo allontanate dalla grande festa preferendo un ruscello poco distante.
Ascoltavo i suoi racconti con attenzione, il mondo in cui racontava delle storie che leggeva e scriveva era  coinvolgente.
Mi dimenticai persino della Laguna. La Laguna.

"Io questa sera avevo pensato di andare alla Laguna."

La ragazza si alzò di colpo scrollandosi la rugiada dai capelli.

"Alla Laguna? Non da sola spero!"

Feci un mezzo sorriso malizioso.

"No, certo che no. Con te."

Jane sghignazzò e mi prese per mano. La luna splendeva vivacemente, ne coglievo l'immagine sbiadita riflessa sulle acque della Laguna in lontananza.
Per giungervi avevamo percorso una strada malandata già all'epoca che costeggiava la collina su cui sorgeva Villa Stoica.
Jane si rivelò una ragazza molto piacevole e gentile.
Ogni qualvolta un animaletto della notte attraversava la nostra strada lei si emozionava e si copriva la bocca con la mano per lo stupore.
Poiché prestava molta attenzione al tono di voce,per evitare di disturbare le creature del bosco, spesso si ammutoliva di colpo e mi invitava imbarazzata a fare lo stesso.
Era senza dubbio una giovane dai mille interessi.

"Pensa che spesso, per quante cose catturano la mia attenzione, devo trascurare un interesse per un altro e questo mi fa sentire così in colpa!"

I nostri sguardi si incrociarono, notai del disappunto sul suo volto, dopotutto non aveva ancora compiuto sedici anni, era ancora molto giovane.

"Anche a me capita sai? Ma non sarà certo un mese o persino un anno a cancellare l'affinità che c'è tra te e quell'attività."

Jane si addolcì  alle mie parole, si sentì colpita nel profondo e non smise di ringraziarmi per la mia nobiltà d'animo per tutto il resto del tragitto.
Talvolta noi esseri umani sappiamo essere così crudeli e critici con noi stessi.
Ci illudiamo che gli altri si mostrino per ciò che sono, perfetti, agli occhi del pubblico  ignorandone le debolezze e fragilità.
Eppure, dico io, guardiamo al nostro riflesso e agli altri con gli stessi occhi.
Alcuni di noi, sono sempre pronti a mettersi in discussione di continuo; fino al punto in cui perdiamo ciò che abbiamo coltivato pensando non ce ne appartenga il merito.
Jane ascoltò le mie riflessioni con profondo interesse ed empatia innata, ne rimasi colpita.
Dopo circa tre quarti d'ora passati a calpestare erba umida e rigogliosa, finalmente scorsi un luccichio che solo il particolare riflettersi della luna piena sull'acqua poteva causare.
Vorrei precisare che era un posto molto frequentato ma che quella sera, per via della fiera, per strada non incontrammo più di quattro o cinque visitatori.

"Jane siamo arrivate! Oh mio Dio è splendido!"

La ragazza non rispose, fece una giravolta e si tolse le scarpe pesanti e scomode.

"Andiamo lungo la riva. L'acqua è ancora piacevole in questo periodo dell'anno."

Vedendomi preoccupata si avvicinò e prese in mano le scarpette.

"Non ti fare problemi per il vestito, la Laguna non è fangosa. Ma se non te la senti possiamo fermarci qui."

Scossi la testa e sfilai le scarpe che Dumitra mi aveva generosamente affidato.

"Certo che no! Andiamo."

Jane mi prese per mano e tirammo su le gonne con l'altra per paura di danneggiarle.
Si levò un leggero vento, una brezza affatto fastidiosa appena in grado di pettinarci le chiome acconciate.
La Laguna era ancora lontana di fronte a noi, ne vedevo solo il riflesso, come fosse un miraggio.
Cominciai a correre incurante della situazione, del mio vestito costoso e pesante, dell'imbarazzo presente fino a poco prima tra me e la quasi sconosciuta che mi aveva accompagnata fino a lì.
Anche Jane si abbandonò a comportamenti selvaggi e istintivi.
Si udiva il gracchiare di corvi e lo svolazzare di foglie secche insieme alle nostre voci, musica per le orecchie.
Tra una risata e l'altra prendevamo fiato con respiri profondi assaporando la purezza dell'aria di quel posto, a mo di ultimo respiro.
La Laguna  si faceva sempre più vicina, finché non la vidi.
Jane si bloccò.

"Jane?"

La ragazza non rispose.

"Jane?"

Questa volta domandai con maggiore insistenza.
Ma mai mi aspettavo che sarebbe stata capace di tapparmi la bocca con le sue stesse mani.
Ci scambiammo un'occhiata di terrore.
Avevo il fiato corto, le feci capire che stentavo a respirare.

"Prometti di fare silenzio?"

Annuì e Jane mi lasciò andare.

"Dobbiamo andarcene."

Ma ancora non eravamo neppure arrivate.

"Andare?"

Jane aveva gli occhi lucidi, le sue pupille erano spaventosamente dilatate, cercava di soffocare i gemiti di paura.

"Corri Elvira. Corri!"

In quel momento sentì in lontananza un grosso cane abbaiare.
I corvi si levarono nell'oscurità  tutti insieme formando una lugubre coreografia.
Corsi scalza, non ebbi il tempo di infilare le scarpe.
La gonna si impigliò più volte in piante spinose e rami sporgenti, mi venne da piangere per la paura di dover restituire l'abito in codeste condizioni dopo che Dumitra si era raccomandata tanto.
Il cane sembrava avvicinarsi, non era solo.

"Mi dispiace Elvira, non ho avuto il coraggio di dirti di no. Eri così decisa ed emozionata."

Aveva le lacrime agli occhi, era terrorizzata e stringeva tra le mani le scarpe sperando che un odore famigliare potesse rassicurarla.

"Non preoccuparti cara Jane, sei stata tanto buona con me."

La presi per mano in quella folle fuga da chissà chi o che cosa, ricordai di non averglielo chiesto.

"Chi ci cerca?"

Sospirò.

"Se ci dovesse trovare Victor qua sarebbe la fine. È fissato con Helena, sa che io vengo qui."

Jane si guardò le spalle, poi, asciugandosi le lacrime mi strinse la mano e mi fece cenno di entrare.
Difronte a noi, nascosta tra alcuni vecchi alberi ancora rigogliosi, era stata costruita una recinzione e una piccola casetta di legno.

"Chi ci abita?"
Chiesi indugiando.
"Helena."

Non appena Jane si accorse che stavo esitando fin troppo mi domandò se conoscessi Victor.
Non riuscì a mentire, aveva un animo così buono.

"Non credere a ciò che dice. Helena possiede tanti libri, erbe e cimeli magici. È una donna saggia, e poi, in ogni caso, non abbiamo altra scelta."

Mi rassegnai e bussammo alla porta.
Jane bussò tre volte, non esattamente di fila, attese tra un colpo e l'altro per renderne chiaro il numero.
Poi, dopo pochi secondi di attesa la porta cominciò ad aprirsi.

"Zia! Sono Jane, aprici ti prego!"

Finalmente la porta si spalancò e nella penombra apparve una donna vecchia e malconcia.
Helena perciò era la zia di Jane, ne rimasi profondamente stupita e disorientata.

"Entrate care. Venite al caldo."

Ci fece entrare, ci portò tazze stracolme di bevande calde di cui non conoscevo il nome.

"Sono Helena cara, non sei di queste parti vero?"

Imbandì l'umile tavolo, anch'esso in legno con dolci e tisane artigianali.
Le raccontai del perché mi trovassi lì e lei mi consolò con sincerità per la morte prematura di mio padre.

"Devi perdonare tua madre cara, non tanto per lei, ma per te. La tua anima necessita di pace sai?"

Jane aveva ragione, aldilà del suo aspetto trasandato Helena si dimostrò una donna d'oro dalle svariate arti.

"Che libri stupendi!"

Dissi accarezzando le rilegature di libri antichi sugli scaffali.
Nemmeno un filo di polvero copriva la loro bellezza d'altri tempi.

"Da quando sono giovane come te faccio amicizia con le energie che questo posto ha da offrire. Mi piace dirlo così.
Ho studiato molto sai? Anche Jane è molto portata, è un dono cara Elvira."

Jane arrossì facendo la modesta.
Qualcuno prese a battere sulla porta d'ingresso.
Helena perciò smise di parlare e si alzò dal tavolo con occhi colmi di furia.

"Nascondetevi in cucina ragazze, non ricerchiamo problemi."

Seguì Jane in cucina senza ribattere, ci accucciammo ai piedi del tavolo ad origliare la conversazione.
Jane era un fascio di nervi, pronta a scattare ,seppur impaurita, in difesa della zia.

"Cosa vuoi ragazzo? Ti ho già chiesto di non disturbarmi."

L'uomo appoggiato allo stipite della porta rise nervosamente.

"Vecchia, ti ho già detto di stare lontano dalle ragazze della città. Non ti azzardare a manipolarle con le tue magie diaboliche!"

Riconobbi subito la sua voce, si trattava di Victor.
Un cane abbaiò infastidito dal tono di voce del padrone.

"Sono qui sola da tanto tempo ormai, non mi tormentare Victor. Sono solo una povera vecchia sola."

La voce di Helena tremava di rabbia.
Finalmente sentimmo la porta richiudersi e tornammo da lei a testa bassa.

"Mi dispiace signora, se ci avesse viste le avremmo creato problemi."

Tentai di scusarmi, in realtà, non avevo la minima idea di ciò che avrei dovuto pensare o dire.

"Chiamami Helena cara ragazza. Non temere per me, tornate quando volete a trovarmi."

La salutammo e ci addentrammo nel bosco buio per paura di incappare nel cane di Victor o ancor peggio in lui in persona.
Fu decisamente una notte lunga, sfortunatamente devo dirvi che tutto ciò ne fu solo l'inizio. Era così tremendamente buio.
I raggi lunari si confondevano tra la fitta selva.
Ricordo di essermi fatta così tante domande alle quali non ero in grado di rispondere.
Jane, che camminava silenziosamente al mio fianco, tremava per la paura di essere trovata da Victor.
Mi era parso una brava persona quando lo avevo incontrato per la prima volta, nonostante il suo comportamento nei miei confronti.
Quando gli parlai delle mie intenzioni riguardo la Laguna mi trattò come una bambolina indifesa, cose se avessi la necessità di un uomo accanto per ogni evenienza.

"Siamo quasi arrivate alla piazza principale."

Guardai difronte a me, Jane aveva ragione. Continuammo a camminare rallentando, mano a mano che avanzavamo, il passo in modo da non dare nell'occhio.
Vidi in lontananza il vestito di Dumitra e mi fermai di scatto:stava parlando con Victor, sembravano intimi amici o forse, persino qualcosa di più.

"Dumitra conosce Victor."

Jane aveva un'aria di dubbio.

"Certo che lo conosce, sono molto amici da sempre!"

Non appena notò la mia espressione si mise sulla difensiva e cominciò a raccontare.

"Oh, giusto, non lo dire in giro, ne tantomeno a Dumitra. La signora stoica non approva, lo so solo dal momento che una volta insieme a Victor,a bussare alla porta di mia zia, c'era anche lei."

Perciò Victor aveva presentato Dumitra a Helena.
Avrei voluto chiederle perché sua zia era perseguitata dalla presenza di quel ragazzo ma Jane mi sorrise sussurrandomi parole incomprensibili e raggiunse i suoi genitori in negozio.
Mi trovai nuovamente sola tra completi sconosciuti e una coppia dalla intenzione poco chiare.
Fortunatamente furono in molti ad avvicinarsi per complimentarsi con me per l'abito, in particolare i cittadini del villaggio, e il resto della serata volò via senza ulteriori complicanze, o almeno così pareva.

I giorni a venire furono particolarmente oziosi, non ho nulla da riportare a riguardo.
Tenni le lezioni di tedesco come era stato detto, restituì l'abito che avevo usato in occasione della fiera solo dopo averlo pulito con cura.
Dumitra non notò nulla di diverso nell'aspetto del vestito o perlomeno non lo diede a vedere.
Era una ragazza dalle caratteristiche controverse, misteriose, e forse, qualche segreto lo nascondeva per davvero.
Le notti erano diventate fredde e rumorose per via dei troppi temporali che peraltro mettevano a dura prova il sonno leggero di Dumitra.
Ogni volta che scendevo in salotto nel cuore della notte trovavo la ragazza intenta a passare il tempo con qualche libro.

Un lunedì mattina, proprio mentre la mia mente divagava trai sogni più bizzarri e disparati, un corvo molto grande si poggiò su un ramo giungendo sino quasi alla mia finestra e prese a gracchiare con insistenza.
Mi lamentai rigirandomi tra le coperte finché il fastidio non si tramutò in rabbia e mi decisi a balzare fuori dal mio caldo nascondiglio.
L'autunno si faceva sentire.
Quando scesi per la colazione Oana mi fermò a metà corridoio, era visceralmente emozionata per qualcosa, lo percepivo da tempo.

"Dimmi Oana, cosa è successo di così speciale?"

La bambina fu felice della mia domanda, sono certa tuttavia che me lo avrebbe raccontato ugualmente.

"Oggi in città arriva il circo! Ti va di venire?"

Esitai di fronte alla sua proposta, si trattava di una bambina, non sapevo se i genitori sarebbero stati d'accordo.

"Ne parlerò con i tuoi genitori e Dumitra, mi piacerebbe tanto!"

Oana sbatté i piedi facendo il broncio.

"Che succede Oana?"

Eliana giunse alle nostre spalle con autorevolezza ma sentendo la dolce proposta della figlia si intenerì all'istante.

"Saremmo onorati di averti con noi per la  nostra piccola gita di famiglia!"

Allora era deciso, dopo pranzo saremmo partiti e saremmo tornati soltanto in tarda serata.
Dumitra a tavola non fece altro che raccontare aneddoti divertenti sulle loro esperienze precedenti al circo.

"Mi raccomando Elvira, vestiti normalmente, non abbiamo ospiti e curiosi da impressionare in città."

Poi mi fece L'occhiolino e corse, nel senso proprio della parola, a prepararsi.
Per la prima volta vidi la famiglia in abiti adatti al contesto storico di quel periodo.
Dumitra mi fece entrare inoltre nella sua stanza da letto e mi mostrò tutti i suoi vestiti affinché potessi scegliere qualcosa di adatto.
Rimasi affascinata dalla quantità di abiti estremamente costosi che possedeva.
A sorprendermi ancor di più fu la semplicità e umiltà  con la quale mi prestò dei capi d'abbigliamento di sartoria senza raccomandazioni o accenni di vanto.
Il circo romeno fu una novità piacevole, si esibirono numerosi acrobati e giocolieri appartenenti a importanti famiglie di circensi, così mi spiegò Eliana.
Mangiammo in un ristorante rinomato e di classe, per quanto riguarda il loro stile di vita, quella fu un'esperienza come le altre, ma per una me ragazzina e che di costoso in casa aveva avuto solo il televisore fu tutto nuovo.
Quando tornammo a casa ero stremata,mi addormentai persino in macchina come una bambina.
Una volta nella mia camera mi stravaccai sul letto e mi sforzai di togliere e ripiegare ciò che indossavo, di modo che la mattina successiva li avrei riportati a Dumitra senza pieghe o macchie.
Era una notte fredda, il cielo venne illuminato più volte da lampi luminosi ma neanche una goccia di pioggia sbatté contro la mia finestra.
Mi voltai sul fianco socchiudendo gli occhi ma non riuscì a dormire in nessun caso.
Un frastuono proveniente dal piano inferiore mi risuonava nelle orecchie.
Sembravano passi di un gigante, regolari e tanto pesanti da far tremare il terreno.
Decisi di restare nel mio letto al caldo, ignorai il rumore finché non dovetti coprire le orecchie con il cuscino.
Ad ogni minuto che trascorreva tutto ciò si faceva più insopportabile.
Accesi la luce e controllai l'ora sul mio orologio: segnava le 3:47.
A quel punto, per la disperazione, mi infilai una felpa che profumava ancora di Germania e di casa e balzai giù dal letto.
Non appena scesi le scale mi accorsi di essere sola.
Villa Stoica aveva due piani, il pianoterra, dove si trovavano la sala da pranzo, la cucina, un salotto e un bagno; e il piano superiore ove invece erano situate le camere da letto, bagno personali e stanze private.
Mi trovato al pianoterra, mi sedetti sul divano, eppure ero certa che il rumore provenisse da sotto il pavimento, rimbombava rumorosamente sotto i miei piedi.
Perciò mi accovacciai e accostai l'orecchio al pavimento per origliare.
Sentì chiari passi, mi sembrò che qualcuno stesse salendo scale e che stesse giungendo sempre più vicino, finché una mano non si poggiò sulla mia spalla.
Non avevo udito nessuno scendere le scale e questo in quel momento mi portò ad un'unica conclusione.
Sussultai e il respiro mi si spezzò.
La mano si spostò di riflesso e pur essendo raggomitolata a terra vidi la figura indietreggiare nella penombra.

"Elvira, calmati, sono Dumitra! Cosa fai ancora sveglia?"Ogni parte di me era stata travolta da un tremolio violento e incontrollabile così, Dumitra mi si avvicinò nel tentativo di rassicurarmi.

"Tesoro perché sei così agitata? Ti ho solo toccato la spalla."

Dopotutto aveva ragione, ma se solo avessi avuto il coraggio di parlarle dei rumori che avevo udito forse anche lei si sarebbe messa in guardia.
Temevo di gridare al lupo invano, ero molto stanca, anzi decisamente esausta e Villa Stoica era abbastanza suggestiva da divenire un teatrino perfetto per i miei film immaginari.
Dubitai di me stessa a tal punto da convincermi a tornare nella mia stanza.

"Oh nulla, ero semplicemente pensierosa."

Dumitra mi sorrise accarezzandomi la spalla con le dita magre.
Mi ripeté le solite cose raccomandandosi di non fare complimenti e di chiamare lei e Orazio in caso di necessità.
Mentre mi allontanavo camminando in punta di piedi, con la coda dell'occhio, vidi Dumitra adagiarsi sul divanetto del salotto con un libro in grembo.
Mi sentivo in colpa poiché forse ero stata proprio io a svegliarla, come ho già detto, la ragazza aveva un sonno tanto leggero!
Definirei il confine tra la Dumitra addormentata e cullata da dolci sogni e quella sveglia e sull'attenti come una bolla di sapone, per quanto fragile.
Ad ogni modo, tornai nella mia stanza e mi rintanai sotto le coperte in cerca di protezione.
Quella notte non era illuminata dalla luna e le stelle erano coperte da un corposo manto di nuvole nere che minacciavano temporale.
La mia stanza non appena spensi la luce cadde nel buio più totale.
Risi di me stessa cercando di tenere la mente occupata.
Non ero mai stata una giovane paurosa o credulona, tutt'altro!
Fin da quando ero piccola amavo passare la notte a leggere thriller, ricordo essere "Un nome senza volto" la mia lettura preferita, specialmente in inverno.
Ho sempre preferito dare ascolto alla razionalità e alla scienza.
Non ero certo stata una bambina impressionabile.
Eppure quella notte non riuscì a chiudere occhio, lottando contro pensieri indesiderati che sbucavano dalla mia mente come erbacce in un campo.
Ad ogni rintocco dell'orologio della chiesa vicina a Villa Stoica facevo il conto alla rovescia per le 6, orario in cui suonava la sveglia per Orazio e gli altri collaboratori domestici.
Sapevo che se avessi varcato la porta della mia stanza prima di quell'ora avrei svegliato nuovamente Dumitra.
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