Capitolo 32. "Una via, due possibilità." (Jane's POV)

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Avevo visto Victor oltrepassare il negozio di mia madre senza gettare l'occhio sui meravigliosi dolci in vetrina: ogni mattina si fermava, sceglieva la prelibatezza più calda, qualora fosse inverno, o più fredda, quando la tiepida estate si faceva sentire, il sole raggiungeva con arroganza lo zenit a mezzogiorno.

Strano.

Imboccò la via a sinistra, quella grande strada sterrata che risaliva la vertiginosa collina.
Era comune trovarvici lupi,alle volte solitari, nel peggiore dei casi,però, in branco.
La gente del posto lo sapeva e per questo motivo nessuno si era preoccupato di rendere codesta zona prettamente boscosa, selvaggia, sconosciuta, anche lontanamente accogliente.
Quella strada si arrampicava usando le rugbiste radici degli alberi che creavano venature nel terreno a mo' di artigli; aveva due sole destinazioni: il cimitero e Villa Stoica.
Era nata per facilitare il lavoro dei contadini nelle campagne circostanti, terminava, fino alla costruzione rinascimentale di Villa Stoica, con un comunissimo vicolo cieco.
Una volta, poco tempo dopo essere arrivata in Romania, ricordo di averla percorsa.
Ero molto piccola, ingenua e per giunta di lingua straniera.
Mia madre mi aveva intimato di non allontanarmi e così feci fino a che non vidi una splendida carrozza trotterellare allegramente per quella via.
Presi a seguirla, pareva rallentare premunendosi di non esser troppo veloce per le gambine corte di una bambina.
Il sole cominciava a calare e a velarsi di una nebbia spessa, priva di umidità, densa come lo zucchero filato.
A fatica distinguevo l'ombra barocca che produceva la carrozza da quelle allungate degli alti abeti, il cocchiere frustò con violenza i cavalli, nitrirono, rallentarono.
L'uomo alla guida rise, una voce roca e viscida al contempo, gli ululati dei lupi sembrano una valida risposta,spezzarono il silenzio, mi solleticarono la pelle.
Il cocchiere balzò giù dalla carrozza provocando un flebile fruscio di foglie secche , la quiete tornò a vegliare su di me; in lontananza, affilando lo sguardo è incastrandolo tra i rami degli alberi vidi Villa Stoica.
Una manina poco più grande della mia mi afferrò i capelli, gridai con tutto il fiato che avevo nei polmoni, sarebbe stato un urlo disumano per quanto carico di terrore se Victor non mi avesse zittita con la sua stessa mano.

"La mia insegnante dice che è pericoloso qua, dobbiamo andare via!"

Aveva il fiatone, il petto si gonfiava con movimenti irregolari e impacciati.
Bastò poco all'epoca per indispettirmi, presa dalla magia di quella notte, di quella carrozza, del misterioso cocchiere.

"E chi è la tua insegnante?"
Dissi con una cantilena da infante pettegola.

Il bambino rimase sconvolto dalla mia ignoranza quasi come se fosse di vitale importanza conoscere ogni dettaglio di questa fatidica donna.

"Helena.Però io ci vado di nascosto, mio padre è amico del dottore e lui dice che Helena è solo una strega!"

Con aria di superiorità a sostituire la mia consueta timidezza lo informai riguardo al mio albero genealogico.

"Helena è mia nonna! Però la mia mamma vuole che io la chiami zia, non glielo dire."

Il bambino sfoggiò un sorriso solare e genuino, un po' sdentato, e mi porse la mano.

"Io sono Victor! Tu sei Jane allora."

Ripercorremmo la strada insieme facendoci coraggio, sfidando le ombre notturne, ridendo per mascherare ogni nostro viscerale timore.
Non ero consapevole del fatto che Victor mi avesse salvata,salvata da lui.

Anche oggi imboccò quel sentiero buio, mi domandai quale delle due potesse essere l'ambita meta.
Sapevo che si sarebbe recato a Villa Stoica, ne avevo la certezza.
Dopotutto, recarsi a quel cimitero sconsacrato, visti gli ultimi bizzarri episodi, non era visto di buon occhio.
Erano state ritrovate le carcasse di due animali: un gatto nero, infilzato sul cancello; un cane ancora cucciolo, fatto a pezzi e abbandonato all'interno di un cerchio tracciato con il suo stesso sangue, lasciato colare sulla terra, marrone, sporco di insetti e sassi.
Rabbrividii al pensiero che avesse sentito la nostra conversazione del giorno precedente, il progetto di recarci al cimitero, le confidenze riguardo i gemelli.

Maledetto il giorno in cui mi sono convinta che fosse una buona idea metterla in pericolo in questo modo.
Se solo avessi ascoltato zia Helena non sarebbe accaduto.

Victor non le avrebbe fatto del male, non ne sarebbe stato capace, ma lui lo avrebbe punito per la sua negligenza e mancanza di cinismo.
Recarmi a Villa Stoica non avrebbe fatto altro che svelargli il nostro crudele piano, la nostra malefica trappola.
Io e mia nonna avevamo pensato a lungo a tutto ciò.
Mi aveva istruita per tutti questi anni, un tempo anche Victor era stato suo allievo, prima di incontrare lui.
Dopo il misterioso incidente con un'auto Elvira non mi era più parsa la stessa, lui le aveva contaminato l'anima, aveva piantato il suo seme infernale e lei non ne era a conoscenza.
Si convinceva che fossero una serie di anomale conseguenze, temeva di ammettere che tutto ciò fosse reale.
Chiunque avrebbe fatto lo stesso.
Anche Jonathan Harker e il Dr. John Seward avevano inizialmente commesso lo stesso errore.
Era una giornata piuttosto nuvolosa, mi ero nascosta tra la nebbia ed ero giunta a casa di mia nonna.

"Ho fallito con Itsuko, ero già troppo vecchia, adesso ci sei tu."

Nei suoi occhi galleggiavano cristalli luminosi, occhi chiari come le acque magiche della Laguna che intrappolava nel suo fluido corpo i raggi solari.

"Tu, mia cara Jane, tu la salverai."

La responsabilità di quella missione gravava sul mio giovane cuore.
Il fallimento non era un'opzione.
Ricordo ancora il giorno in cui la realtà che conoscevo si frantumò sotto i miei piedi, fu il giorno in cui vidi lui.
Il suo diabolico sorriso sensuale, il volto scavato e pallido come la luna, le iridi color mogano che mi avevano rimescolato le budella facendomi percepire meravigliose farfalle leggiadre nello stomaco.
Non era certo umano quell'uomo dall'energia tanto maligna da portare alla morte un fiore appena sbocciato, dal gambo turgido, nutrito da madre natura stessa per la vita.
Tutti in paese lo conoscevamo, ciascuno di loro aveva abbassato lo sguardo per scaramanzia ed era diventato più religioso, nessuno aveva creduto ai loro timori.
"Branco di capre accecate dal cattolicesimo più ignorante" li aveva definiti un ispettore per la sanità giunto alla pasticceria di mia madre.
Era una fortuna che lui preferisse le donne straniere a quelle locali, l'unica magra rassicurazione per quelle scapestrate delle mie compaesane.
Sarebbe stato più semplice far scomparire le loro tracce, tanto, nessuno di certo avrebbe mai parlato, non ne avrebbe avuto modo: lui le avrebbe battute sul tempo.

If I Was Your VampireWhere stories live. Discover now