Capitolo 45. "La madre di Angela." (Jane's POV)

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Angela era forse la nostra ultima speranza.

Io, la dottoressa Lucretia e il piccolo Augustin ci guardammo con fare complice: ciascuno di noi aveva ben chiaro in mente il ruolo che avrebbe ricoperto una volta che saremmo usciti allo scoperto e, cosa di rilevanza ancor maggiore, era conscio dei pericoli a cui sarebbe andato incontro quando lui ci avrebbe scoperti.
La dottoressa estrasse dal camice due provette dal contenuto interessante. L'una era riempita di sangue umano prelevato di recente; l'altra, al contrario, faceva parte di un lotto tanto vecchio da essere immatricolato negli archivi assieme a delle scartoffie destinate al trita documenti poiché appartenenti a tre generazioni precedenti.
Quest'ultima provetta, fatta di un vetro notevolmente più opaco e scalfito dal tempo, era colma sino all'orlo di una sostanza liquida e tendente al giallo, persino un medico lo avrebbe scambiato per un liquido corporeo qualsiasi se non fosse stato per la consistenza appiccicosa e la fragranza dolce che emanava.

Deve averla aperta, ne ha rimasugli sul camice.
Pensai.

"Posso chiederle cosa contiene quella?"

Lucretia prese a farla ondeggiare con movimenti circolari in senso orario e il liquido roteò all'interno seguendo tuttavia un senso antiorario e scoordinato.
Sembrai essere l'unica ad averlo notato.
Si appiccicava risalendo le pareti del contenitore di vetro e, dopo qualche istante in cui opponeva resistenza, si lasciava cadere passivamente sul fondo producendo un rumore che mi fece ribollire il sangue.

"Non farti ingannare dall'odore, ho potuto constatare che non è dolce come sembra."

La sua affermazione mi aveva lasciata interdetta ma lei strizzò l'occhio e scrollò le spalle come a dimostrare che, a differenza dei comuni mortali, quei piccoli dettagli non la toccavano più come dovevano aver fatto un tempo .
Le macchie sul camice riflettevano come specchi la luce della candela consumata, riaccesa troppe volte.
Sussultai e lei lo notò.

"Oh, non mi guardare così! Non crederai mica che io l'abbia bevuto?"

In verità quello fu proprio ciò che mi passò per la mente ma mi ritrovai costretta a scuotere con decisione la testa per l'imbarazzo. Riuscii persino a strappare un sorriso ad Augustin che, perlomeno per quanto avevo potuto vedere, non rideva mai.
Io, tuttavia, non risi affatto. Io, per mia sfortuna, quella sostanza dolce-amara la conoscevo fin troppo bene.
Fui travolta dai ricordi, erano giorni spensierati risalenti alla mia infanzia.
Ricordai anche un episodio spiacevole e alquanto traumatico che riguardava Angela.

Un'Angela ancora bambina si dilettava nell'arte del canto e dava vita a sinfonie melodiose accompagnata da qualche docile passerotto che abitualmente le si faceva vicino.
La sua mamma era premurosa e bella, nel pieno della sua gioventù, e le intrecciava i lunghi capelli.
Come lei, anche Angela aveva un viso a cuore grazioso e capelli folti che crescevano partendo dall'alta attaccatura appuntita che le ricadeva sulla fronte.
Una notte, tuttavia, la luna abbandonò il cielo e la serenità il cuore di quella bimba.
Dopo aver passato il pomeriggio assieme alla Laguna ci eravamo separate e ciascuna aveva fatto rientro a casa, o meglio, così sarebbe dovuto essere.
La notte era così buia che aveva cancellato il mondo coprendolo con l'oscurità, i corvi annunciavano l'arrivo di un temporale e tagliavano con le ali la fitta nebbia che era calata.
Udii un grido straziante alzarsi e rimbombare per le vie strette del villaggio: una voce bianca chiedeva aiuto, spezzata dalla paura.
Mia madre, a cui, come me, quella voce era famigliare, si infilò in tutta fretta una vestaglia e si precipitò fuori di casa.
Io, svegliata dai singhiozzi disperati, la seguii ignorando le sue intimazioni, e, aggrappata saldamente alla stoffa dei suoi vestiti per tentare di rimanere al suo passo, mi ritrovai all'interno di un incubo.
Uno di quegli attimi in cui l'orrore è tanto da lasciarli interdetto, tanto da portarti immediatamente all'esasperazione.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime quando udii la vocina di Angela supplicarci di salvare la sua mamma.
Era dicembre e l'aria era tanto gelida da ghiacciare in poco tempo le dita, eppure, Angela, era coperta da solo una piccola camicia da notte sbiadita mentre stringeva con forza il suo pupazzo fradicio di lacrime al petto. La madre di Angela morì quella notte stessa in preda ai deliri; inutili furono le trasfusioni per cui la stessa Angela si offrì volontaria. Aveva appena compiuto cinque anni e l'estrazione di tutto quel sangue l'aveva resa debole. Di conseguenza la bambina, sfiancata dalle procedure mediche, si addormentò con il suo faccino pallido poggiato sul petto della madre e le manine strette nelle sue che, mano a mano che la forza le veniva meno, allentavano la rassicurante presa materna.
Furono inseparabili, sebbene fossero da tempo entrambe in stato di incoscienza, fino a che la donna non esalò l'ultimo respiro.
La carnagione spettrale della donna rendeva visibili le vene e evidenziava il volto scavato, le labbra tinte di un rosso scuro anomalo erano curvate in un sorriso mentre teneva ancora tra le braccia senza vita la sua bambina.
Fu allora che Angela, accortasi probabilmente dell'assenza del battito o, forse, per causa di un istinto naturale, si risvegliò d'improvviso e, dopo aver guardato me e mia madre con impotenza, scoppiò in un grido straziante, colmo del dolore più profondo che un essere umano possa provare.
Pianse per giorni e, quando giunse il momenti della sepoltura, la bambina diede di matto.
Tentò per interminabili ore di svegliare la madre defunta supplicandola di non abbandonarla, le chiese di accompagnarla a cantare con gli uccellini come facevano sempre, la rimproverò singhiozzando di essersi dimenticata di farle le trecce, le tirò uno schiaffo in viso quando la madre non le rispose.
Giunsero poi i becchini e il dottor Brunch, mia madre portò via Angela a fatica mentre ella si dimenava tra le sue braccia e urlava agli uomini in abito nero di non toccare la sua mamma.
Non mi fu possibile dimenticare quella notte e temo che rimarrà custodita nella mia mente sotto forma di infestante ricordo. La mia amica, a seguito di quella sventura, non mi rivolse più la parola e, quando la direttrice dell'orfanotrofio locale la venne a prendere, si rifiutò di salutarmi. L'espressione che aveva in viso era impassibile, gli occhi gonfi e sfigurati da profonde occhiaie tradivano il distacco che fingeva e che sfruttava a mo' di difesa.
La donna che la venne a prendere la aiutò a riempire una valigia di fortuna con i pochi vestiti che possedeva e le permise di portare con sé solo uno dei suoi effetti personali.
Scelse la spazzola della madre, quella che lei aveva usato per coccolarla mentre le acconciava i capelli e ascoltava con affetto le sue canzoncine.
Di Angela mi rimase solo il suo pupazzo. Quella notte lo aveva lasciato accanto alla madre poiché convinta che ciò l'avrebbe guarita e aveva chiesto che la mamma lo portasse via con lei; i becchini tuttavia se ne erano dimenticati e lo avevano consegnato qualche giorno più tardi alla bambina. Angela lo aveva gettato a terra e preso a calci: era venuto meno al suo dovere, non aveva fatto ciò che lei gli aveva chiesto.
Fui io a raccoglierlo promettendo che sarebbe venuto il giorno in cui glielo avrei restituito e in cui lei mi avrebbe dato modo di consolarla.


Augustin si divertiva ad ascoltare le riflessioni della dottoressa e ascoltava ogni sua parola con attenzione: nessuno aveva fortunatamente fatto caso al mio sguardo distratto o alle lacrime che scendevano sulle mie guance e con un rintocco sulla copertina di un manufatto.

If I Was Your VampireWhere stories live. Discover now