Capitolo 35. (Elvira's POV) "Le tenebre di Villa Stoica."

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Raggiunsi Villa Stoica in breve tempo, la nebbia si era dissolta, o perlomeno, era tornata alla sua normale forma.
Jane aveva mantenuto un'espressione manifestante a pieno il suo tormento interiore, non aveva più tentato di mascherarla come aveva sino a quel momento fatto.
L'aumentare della confidenza tra noi faceva sì che l'affetto la portasse a rivelarmi qualche dettaglio in più sulla natura sinistra e oramai chiaramente soprannaturale di questo paese.
Non avrei mai pensato che tali superstizioni potessero racchiudere un che di spaventosamente reale e diabolico.
Ripensai a ciò che era accaduto nel bosco in presenza di Helena, il ciondolo, la luce.
Era chiaro che tra fanatismi religiosi, rosari e rurali pratiche stregoniche ciascuno avesse il proprio metodo per contrastare il male, o, quantomeno, per tenerlo lontano dalla propria quotidianità.
Dumitra mi rivolse un cortese saluto all'ingresso, Orazio mi domandò se avessi particolari necessità per la giornata, Oana si faceva giorno in giorno più cupa che mai nelle abitudini e nei sentimenti.

"Come stai piccolina?"

Se ne stava sdraiata sul suo piccolo lettino, protetta da una leggera copertina in organza.
Era raro trovare le porte delle stanze da letto aperte, era chiaro che i signori Stoica non fossero in casa.

"Ho paura che tu vada via."

Orazio le avvicinò un bicchiere colmo di latte caldo e speziato.

"Bevi, ti sentirai meglio."

Le sussurrò poi all'orecchio.

La bambina si sforzò di sorridere muovendo le paffute guance rosse oramai prive di colore.

"Non andrò via, te lo prometto."

Le sistemai dolcemente la copertina e mi allontanai socchiudendo la porta, il passo frenetico di Dumitra lungo il corridoio mi suggeriva che gli Stoica avevano fatto ritorno a casa.
Ciascuno di noi sarebbe tornato a un comportamento schivo e distaccato, freddo come l'aria che accarezzava il mio corpo dentro quella casa.
La giornata proseguì senza che avvenimenti particolari accadessero tra le mura di Villa Stoica.
Il sole calava timido, i suoi raggi non la raggiungevano mai, bastava l'aleggiante oscurità sinistra circostante ad esorcizzarlo quasi come fosse pericoloso.
Al contrario, Selene, si arrampicava con zampe di ragno sulle nuvole e raggiungeva con maestosa facilità lo Zenit.
L'unico bagliore di luce nell'oscurità della casa era uno dei suoi raggi perlati.
Parevano perle le bolle d'acqua sulla Laguna, la luna piena assumeva un aspetto mistico in quella fitta radura.
A Villa Stoica Selene era una guardiana traditrice pronta ad osserva come fosse una narratrice esterna alle vicende che si svolgevano al di sotto della sua magica aurea.
La solennità con cui mi osservava, con cui mi seguiva, lui era vicino.
La presenza infestante di quell' "uomo" mi tormentava e stuzzicava nel medesimo istante.
Ero conscia della pericolosità del suo ipnotico sguardo, delle sue rosse e gonfie labbra, strette strette tra gli aguzzi canini bianco latte; eppure, ogni qualvolta mi fosse concesso di percepirlo ne rimanevo tanto sconvolta da desiderarlo sempre più vicino a me.
Mi dimenai tra le coperte fino a che non presi sonno e, quasi nell'immediato, fui catapultata in scenari spaventosi, incubi che definirei più propriamente la rappresentazione sensoriale delle mie intime e animali paure maggiori.
Sentii la morbida coda bianca del gatto insinuarsi tra le mie gambe e risalire fino al mio petto.
Si accomodò sul mio volto,incurante, del mio respiro già di per sé affannoso svegliandomi.

"Sono contenta che tu mi abbia svegliata."

Sussurrai alle orecchie del micio.

Balzai giù dal letto e presi a camminare a tentoni nel buio più profondo seguita dal mio protettore dotato di quattro zampe.
Si divertiva a strusciarsi sulle mie ginocchia saltellando, formando una morbida gobba coperta di pelo bianco e soffice.

"Micino,dove mi vuoi portare?"

Forse sarebbe meglio dire micina.

Notai con aria compiaciuta.

Il lungo corridoio era nascosto dall'oscurità della notte penetrata subdolamente dalle finestre velate di rosso.
Inciampai con il piede destro in uno spesso tappeto ricamato e delimitato da ruvide frange di stoffa, con il sinistro mi trascinai avanti attenta a non cadere.
Ero certa che ci fosse un candelabro ad olio posto su una della colonne delle scale fatte a mo' di riproduzione dorica; cominciai a tastare la superficie di ciascuna mentre avanzavo nell'oscurità.
Vi era un unico debole bagliore ad illuminare i miei incerti passi: il riflesso lunare sullo specchio.

Avevo nuovamente in testa codesta frase, ora non era più solo la luna ad illuminare.

La coda bianca della mia fedele compagna sbatteva sulle mie gambe scandendo il trascorrere dei secondi, o, forse, dei minuti, delle ore.
Lo specchio custodiva i segreti che fino ad allora Villa Stoica mi aveva risparmiato, narrava storie appartenenti ad un passato non poi tanto lontano e che avevano luogo, come avevo avuto modo di scoprire, nel medesimo scenario in cui mi trovavo.
L'oggetto in questione era tanto alto da sovrastare il mio corpo con la sua imponente presenza.
La cornice in legno scuro si confondeva in maniera impeccabile e impercettibile con l'ambiente circostante, difficile constatare quando il suo perimetro terminasse.
Vidi la gatta oltrepassarlo con un agile balzo, percepii lo spostamento d'aria, scrutai i suoi occhi verde chiaro,quasi impercettibile, tristi, al contempo determinati e vigili, scomparire a loro volta nel buio.
Mi attendeva, come una saggia protettrice, attendeva che la seguissi e che abbandonassi il timore che lui fosse vicino.
Mi sovvennero alla mente ricordi che fino ad allora avevo ignorato.
Una giovane, dai capelli chiari quanto la corteccia di betulla e dalle labbra rosse come ciliegie,mi sussurrava codeste parole:

"Sulla collina vi sono strane creature, mimano un'oscura danza, desiderano portarti con loro nel loro viaggio."

Alzai lo sguardo così da incontrare il colore delle iridi nei suoi occhi, una sfumatura umana e confortante, un particolare che potessi facilmente ricordare.
I suoi occhi erano bianchi, le sue iridi non avevano colore, si poteva guardare con occhio ogni suo pensiero e ambizione per quanto trasparenti.
Eppure racchiudevano ciò che di più tenebroso si potesse immaginare:la riconobbi.

Lo specchio aprì le sue diaboliche porte al mio corpo mortale con difficoltà, mi dimenai fino a che non mi ritrovai stramazzata al suolo.
Strisciai poi su un gelido pavimento in pietra scorticando la superficie delle mie mani sulle irregolarità di essa e raggiunsi un arco rudimentale.
Il buio era mitigato da una luce infernale.
La gatta non era più al mio fianco, così come ogni mio affetto, mi aveva abbandonata.
I passi, quelli che avevo udito quella notte, erano più vicini che mai.

Qua qualcuno doma a fatica la propria anima divorata da rimpianti e sensi di colpa mortali, condannata ai dolori incessanti che solo Satana in persona, dovendosene liberare, poteva avergli meschinamente affidato.

If I Was Your VampireDove le storie prendono vita. Scoprilo ora