Capitolo 40

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Foto di apprezzamento per Carter. Sei la mia vita.🌼

Nero.

L'unica cosa che riuscivo a vedere era il nero, l'oscurità che mi circondava, mai come prima di allora. Davanti ai miei occhi si era materializzata la mia più grande paura, quello che mai avrei voluto accadesse: mio fratello, il mio gemello... era morto.

Ripetevo quelle parole nella mia testa come fossero un rosario recitato a memoria, ma non riuscivo a credere che fossero vere. Mi guardavo intorno e mi sembrava di vederlo ovunque: seduta sul letto della mia stanza, mi sembrò di vederlo camminare nel corridoio per dirigersi nella sua camera, non prima di avermi alzato il dito medio, affettuoso come sempre; nascosta sotto la scrivania, con le mani a coprirmi le orecchie, lo vedevo affacciarsi sotto di essa e porgermi la mano, per aiutarlo a nascondersi lì con me; impaurita dal rumore dei tuoni, lo vedevo alzare le coperte del mio letto e rannicchiarsi accanto a me, stringendomi tra le sue braccia.

E non mi sembrava possibile immaginare un mondo senza di lui. Senza la sua risata, senza le sue battute derisorie, senza il suo senso dell'umorismo. Da quel momento in poi, avrei dovuto vivere una vita in cui non avevo nessun gemello, nessuno che mi spronava a dare il meglio di me in ogni circostanza, nessuno che mi proteggeva dalle brutte intenzioni dei ragazzi, nessuno che mi tendeva la mano quando mi sentivo sull'orlo dell'abisso, pronta ad affondare.

E il vestito nero che indossavo quel giorno, rappresentava alla perfezione il mio stato d'animo. Non avevo voglia di mangiare, non avevo voglia di uscire, a volte non avevo voglia neppure di respirare. Semplicemente perché sentivo l'aria mancarmi, perché Carter non c'era più ma aveva lasciato un peso troppo grande da sopportare. Ed io, i pesi troppo grandi, li ho sempre lasciati schiacciarmi. Lui era l'unica persona che mi aveva sempre spinta via dal precipizio, poco prima di buttarmi. Era la mia forza. Ed ora mi sembrava di essere solo un corpo senza anima, costretto a vagare in un mondo che non sentiva più suo.

"Cris." La voce di mia madre mi chiamò fuori dai miei pensieri, spingendomi a voltarmi verso di lei. Lei, che il nero non lo aveva mai indossato perché lo considerava troppo tetro, sembrava solo voler sprofondare nell'oscurità di quel colore che, per quel giorno, la vestiva. "Dobbiamo andare." Disse solo, con voce flebile.

Annuii, allontanandomi dallo specchio ed avvicinandomi a lei. Le porsi la mia mano, lei la afferrò senza pensarci su due volte. Mi sorrise debolmente, aggiustandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio.

"Ce la faremo, mamma." Sussurrai, stringendo di più la sua mano. "Ce la faremo."

Poggiò la testa sulla mia spalla, per qualche istante ci godemmo la quiete di quel momento. Io perché sapevo che il vero inferno doveva ancora arrivare, lei perché aveva pianto fino alla sua ultima lacrima, e non le restava più niente. Si aggrappava a me come se fossi la sua unica forza, senza sapere che la mia roccia piano piano stava per sgretolarsi con lei.

Al cimitero, mi sembrò di vedere gente che mai prima di allora avevo visto: lontani parenti, tutto il quartiere, i nostri vecchi compagni di scuola. Tutti eravamo lì riuniti, a ricordare mio fratello, sotto il cielo di una Los Angeles che faceva addensare le nubi sopra di lei, quasi come se volesse essere partecipe anche lei di quel momento.

Andrew era al mio fianco, immobile come una statua; non riusciva a distogliere lo sguardo dalla bara, con sopra decine e decine di rose bianche, e con accanto la sua foto stampata. Ai piedi della bara, una palla da basket, quella che aveva fin da quando era piccolo, e che nell'ultimo anno era stata lasciata a prendere polvere su una mensola nella sua stanza.

In quello squarcio di prato verde, l'unica persona a parlare era il pastore, che esponeva l'elogio funebre. Poi, in lontananza e a malapena udibili, c'erano i singhiozzi di persone che piangevano la perdita di un amico, di un compagno di squadra, di un nipote o di un cugino.

Born to be yoursWhere stories live. Discover now