Capitolo 33 Damon

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   La strada sembra interminabile, come lo è il silenzio che riesce a echeggiare nelle mie orecchie. Nemmeno una parola è uscita dalle nostre bocche. Cody, alla guida, non ha fatto nessuna delle sue solite battute; l'osservo stringere in maniera nervosa il volante al quale sembra in qualche modo aggrapparsi. Stavo per insultarlo appena i nostri sguardi si sono incontrati, per prenderlo a calci nel culo per averla accompagnata fin qui. Guardo il riflesso di lei che compare nello specchietto, mentre il suo sguardo si smarrisce nel paesaggio che scorre indisturbato al nostro passaggio. In realtà non credo che gli abbia dato molta scelta, conoscendo la sua testardaggine l'avrà messo alle strette; sarebbe stata capace di venirci anche da sola, ne sono sicuro. Dio quanto è ostinata. Non ho mai conosciuto una ragazza come lei: cocciuta, arrogante e così fastidiosa, impicciona per giunta.

Trattengo il fiato mentre faccio mentalmente una lista dettagliata di tutti i suoi difetti. Quelli che mi attirano a lei come una calamita, ammetto a me stesso, e quasi mi sfugge un sorriso. È la sua perfetta imperfezione a mandarmi fuori di testa. Sta diventando un problema dal momento che mi basta solo guardarla negli occhi perché tutte le mie difese vengano annullate. La rabbia si dissipa nel nulla come neve al sole che inevitabilmente si scioglie, mi ritrovo a essere vulnerabile, in bilico, sospeso in qualcosa che non conosco.

Prendo il cellulare che continua a vibrare da quando siamo partiti da Indianapolis.

«Dovresti rispondere», dice Cody con un cenno del mento verso il telefono.

«Pensa a guidare», abbaio, lo spengo e lo infilo in tasca. So bene quale discorso vuole farmi mia madre. Lo stesso di quando sono dovuto partire, perché è andato tutto a puttane. Passo le mani fra i capelli, come se in qualche modo la tensione che sento accumularsi potesse svanire. La parola "Clinica Psichiatrica" mi martella nella testa, intrappolata e vorrei farla uscire per sentirmi più leggero, ma non posso è lì per ricordarmi che tutto mi sta sfuggendo dalle mani. Non permetterò a nessuno di toccarla... è già successo, sta tuttora pagando per colpa degli altri. Se solo... merda! Sbatto furioso il pugno sul cruscotto. Non la vedo ma la sento sussultare di paura alle mie spalle per il mio gesto.

«Andrà bene», tenta di dire Cody.

«Certo, sta andando tutto a meraviglia, non trovi?», ironizzo. «Ferma la macchina!», gli ordino. Tempo di posteggiare in un'area di sosta e sono fuori dall'abitacolo in cerca di aria, che sento venir meno a ogni respiro. Piego il corpo in avanti, poggiando le mani sulle ginocchia. Il destino continua a servire la sua mano vincente contro la mia vita che impotente, la guardo come un dannato spettatore. La strada, lo stridio degli pneumatici, la macchina, lei... si proietta tutto nella testa, vorresti fermarlo, poter tornare indietro come faresti se fosse un film. Invece devi guardare restando in silenzio perché è la tua vita. Un secondo interminabile e lo schianto, i vetri sparsi ovunque sull'asfalto... il sangue... troppo sangue.

«Ehi...», mormora dietro di me. È come se mi svegliassi e sentissi solo ora la sua mano sulla schiena. Mi volto verso Allyson.

«Sì, sto bene», dico monocorde, la mente ancora in balia dei ricordi che questa volta non riesco a rimettere al loro posto.

«Non stai bene... e.... sì, insomma, non devi vergognarti...», quando capirà che deve smetterla di farmi da balia? Inchiodo gli occhi nei suoi, sono stanchi, tristi e faticano a rispecchiare la mia immagine. Capisco che dalla mia bocca non sono uscite quelle parole, la ragione sembra per la prima volta aver avuto la meglio su di me. Mi fissa in attesa che dica qualcosa.

«Devi mangiare», esclamo quasi rimproverandola.

«Non ho molta fame», dice.

«Non ti ho chiesto se hai fame, ho detto che devi mangiare!», sentenzio.

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