Capitolo 31 Damon

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   Allungo la mano tastando il materasso vuoto, mi tiro sui gomiti e nella penombra della stanza mi guardo attorno. Vedo la luce filtrare da sotto la porta del bagno, ascolto per un istante e scatto in piedi.

«Allyson», la chiamo bussando alla porta senza far troppo rumore. Sento prima lo scarico del water, quasi coperto dallo scrosciare dell'acqua. «Allyson, apri questa porta!», cerco di restare calmo, poggio entrambe le mani ai lati della stessa in attesa che la apra.

«Arrivo», finalmente risponde. La chiave scatta nella serratura, la porta si apre e la vedo sorpresa nel trovarmi proprio lì a bloccarle il passaggio. «Ero... ero solo andata in bagno», balbetta.

«Davvero?», domando sapendo bene che sta mentendo.

«Sì, ora vuoi farmi passare?», dice stringendosi nelle spalle e chinando il capo. Con due dita le sollevo il mento perché mi guardi.

«Al, cosa sta succedendo?», chiedo in un soffio mentre sento il respiro mozzarsi.

«Niente», mormora oltrepassandomi.

Si siede sul bordo del letto portandosi le gambe al petto. Accendo l'abat-jour sul comodino e siedo al suo fianco. Odio vederla così: indifesa, smarrita.

«Sei stata nuovamente male?», chiedo serrando le mani in due pugni per la rabbia.

«Sì», mormora poggiando il mento sulle ginocchia.

«Da quando?», continuo con il terrore della sua risposta.

«Non ha importanza», prova a dire. Stringo ancora più forte i pugni, fino a sentire le unghie penetrarmi nei palmi delle mani.

«Da quanto tempo lo fai?», sussurro quella domanda senza guardarla in volto.

«Credevo... io credevo di essere guarita», dice. Le parole mi travolgono in un istante, obbligandomi a voltarmi verso di lei.

«Guarita?», corruccio la fronte. «Allyson, parlami! Cosa stai dicendo?», la prendo per le spalle ma è come se non fosse qui di fronte ai miei occhi. Il suo sguardo è smarrito sul pavimento della camera.

«Ho sofferto di bulimia nervosa per quattro lunghissimi anni. I più brutti di tutta la mia vita», ogni parola che pronuncia mi schiaccia sempre di più strappandomi il respiro e serrandomi la gola. «Credevo di essere... di esserne uscita, la psicanalisi, la dieta impostami dagli specialisti, i farmaci».

Elenca tutto quello che ha passato, che ha dovuto affrontare. Non riesco quasi a credere che dietro a quel sorriso scorrano lacrime silenziose.

«Perché?», chiedo.

Voglio sapere cosa l'aveva ridotta in quello stato.

«Mia madre ci aveva abbandonato da un giorno all'altro. Trovavo rifugio nel cibo, in un anno avevo preso trenta chili. Al liceo venivo derisa da tutti per il mio aspetto, "Ally la cicciona"», dice con un fil di voce che trema, trattenendo a fatica le lacrime che supplicano di venir fuori. «Allora, mangiavo, mi abbuffavo fino a stare male per poi correre in bagno e liberarmi da tutto quel cibo, rifiutando il mio aspetto fisico. Giorno dopo giorno, quel gesto occasionale era diventato naturale. Incominciavo a perdere drasticamente peso ed è stato lì che mio padre si è reso conto che non stavo bene», sono bloccato, paralizzato da ogni sillaba che ha sfiorato la sua bocca.

«Perché lo stai rifacendo se stavi bene, cazzo!», il senso di colpa, mai provato per nessuno si prende gioco di me per la prima volta, divorandomi.

«È tutto così assurdo», sussurra rompendo i pensieri che si accalcano nella mente. «un attimo prima stiamo litigando e quello dopo sono abbracciata a te», dice sconfitta, come se fosse la cosa peggiore che le sia capitata e forse lo è davvero.

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