Capitolo 7 Allyson

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Occhi negli occhi, il mio corpo che trema mentre la mia fronte è contro la sua. Non ho saputo fermarlo, volevo ma le parole non sono uscite dalla bocca. Sono rimaste sospese nel groppo in gola che sentivo formarsi mentre si avvicinava sempre di più a me, mentre la sua mano accarezzava il mio braccio fino a raggiungere il mio volto. Ero ipnotizzata dai suoi gesti, dal suo sguardo che prepotente non lasciava il mio.

Il suo respiro che mi solleticava la pelle fino a scoprire il suo sapore, un misto di menta e liquirizia che mi ha strappata da tutto ciò che mi circondava. Ho sentito come se il mio corpo fosse attraversato da una lama infuocata che mi regalava un piacere nuovo, ma allo stesso tempo ho provato dolore... il suo. Per quei pochi secondi mi sono lasciata travolgere da lui. Il suono del suo cellulare riporta entrambi alla realtà. Distolgo imbarazzata lo sguardo dal suo e mi scosto. Lui prende il telefono dalla tasca e non so perché ma i miei occhi cadono sul display dove leggo il nome di Arleen. Chiude subito la chiamata e senza proferire parola si alza per dirigersi verso la macchina. Per un attimo mi sento smarrita.

«Vieni o preferisci tornare a piedi?», mi chiede ormai vicino all'auto; lo raggiungo e mi siedo al suo fianco. Il tragitto non è distante, ma lo diventa ancora meno per quanto corre, senza curarsi dei limiti di velocità che infrange bruciandoli uno dopo l'altro. Osservo il suo profilo, la mascella serrata, una mano sul volante, l'altra che sorregge la testa di fianco al finestrino, il suo sguardo che punta la strada ma sembra non essere lì.

«Tutto a posto?», provo a chiedere e quasi vorrei aggiungere chi sia Arleen, ma mi mordo la lingua. Mi guarda appena e abbozza un sorriso.

«Siete tutte uguali», commenta scuotendo il capo.

«Cosa vuoi dire?», domando confusa.

«Lascia perdere». Si ferma due case prima della mia.

«Puoi scendere, ora», aggiunge senza guardarmi in faccia, anzi, si volta dalla parte opposta alla mia in attesa che me ne vada ed è esattamente quello che faccio. Sbatto talmente forte lo sportello che spero possa cadere a terra e il rumore delle sue gomme che stridono sull'asfalto sembra essere diventato il suo modo di salutarmi. Sono arrabbiata con me stessa, per quanto sono stata stupida a baciarlo; ma cosa mi è saltato in testa? Rimprovero a me stessa mentre entro in casa facendo attenzione a non svegliare nessuno. La luce si accende all'improvviso nel salone.

«Ally, ti sembra questa l'ora di rientrare?». Guardo prima perplessa mia madre seduta a braccia conserte sulla poltrona di pelle imbottita e poi butto un occhio all'orologio a pendolo nell'angolo della stanza: segna le tre e un quarto del mattino. Non mi ero resa conto che fosse così tardi.

«Scusa, non ho fatto caso all'ora», mi limito a dire sperando che sia sufficiente e raggiungo le scale per andare in camera mia.

«Non ho finito!», sentenzia in tono autoritario. Resto di spalle, con la mano stretta al corrimano della scala. «Finché sei in questa casa devi rispettare le regole e devi...». Mi volto di scatto e alla mente corrono veloci frammenti di una madre che non ho mai avuto e che in questo momento è di fronte ai miei occhi, con la presunzione di avere un qualche diritto nei miei confronti e di mettere bocca su una vita della quale non ha mai fatto parte.

«Ti ascolti almeno quando parli?». Prova ad aprire bocca ma non glielo permetto, interrompendola: «Sei sparita dalla mia vita quando avevo solo quattordici anni, la mia adolescenza è stata uno schifo e tu non potevi di certo saperlo perché eri troppo intenta nel ritrovare te stessa, vero?». In verità non glielo sto chiedendo, perché ricordo come se fosse ieri il giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle e con essa la possibilità di avere un rapporto con me.

«Tu... Tu non puoi capire...», biascica. Scuoto la testa incredula alle sue parole.

«Hai ragione, io non ti capisco e sai cosa ti dico, mamma? Non potrò mai capire come una madre possa sparire dalla vita della propria figlia per cinque anni».

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