Capitolo 17 Allyson

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 Lui è mio padre. Lui è mio padre. Lui è mio padre. Quelle parole riecheggiano nella testa come un mantra, la sua bocca è serrata in una linea dura senza proferire parola. Non può essere vero. Mi copro maggiormente con la coperta, come se volessi in qualche modo proteggermi dalle sue parole ma si sono insinuate fin sotto la pelle che sento tremare. Aggrotto la fronte in cerca di una spiegazione a questa situazione surreale. Le battute, il bacio, la sua costante voglia di torturarmi, è per questo? Perché mia madre ha sposato suo padre?

«Da quanto sai chi sono?», domando con lo sguardo fisso sul parabrezza mentre torturo le mani in grembo.

«Dalla sera che ti ho lasciato per strada», risponde con sufficienza. Sospiro, ma sento qualcosa bruciare dentro al petto mozzandomi il fiato nei polmoni.

«È per questo che mi odi tanto?», la voce mi esce da sola e riempie l'intero abitacolo carica d'ira. Sì, sono arrabbiata. Con lui sono comparsi i problemi, le bugie e i segreti.

«Sì», sento i suoi occhi marchiarmi, «perché tua madre si è presa anche la mia vita, non solo mio padre», la sua mascella schiocca rimarcando ogni singola sillaba. Mi stringo nelle spalle e scuoto il capo.

«Quindi il bacio e anche...», indico di fronte a noi, dove pochi istanti fa ho sentito qualcosa di nuovo prendere vita nel mio corpo.

Non era solo un bacio, era qualcosa di diverso, lo sentivo prendersi piccole parti di me mentre mi perdevo travolta dal suo mondo. «Anche quando hai detto che non puoi avermi era... era tutto finto?», ed è strano perché mi sembra di vedermi sbraitare contro di lui, che invece resta lì, seduto al mio fianco, come se nulla lo sfiorasse.

«Hai finito?», chiede inarcando un sopracciglio e faccio per scendere dall'auto ma è più veloce di me, chiudendo la serratura centralizzata.

«Fammi uscire», gli ordino.

«No. Non vai da nessuna parte finché non ti calmi», lo guardo sbigottita.

«Non posso calmarmi, tu... tu l'hai sempre saputo e....», raccolgo un attimo i pensieri, rendendomi conto che non può essere l'unico a saperlo. «Lo sapevano tutti?», chiedo sgranando gli occhi che mi si riempiono di lacrime, perché basta guardare la sua espressione per conoscere già la risposta.

«Se per tutti intendi quelli che pensi siano tuoi amici, sì, lo sapevano tutti», dichiara con noncuranza.

«Perché? Che colpa ho io?», domando sfinita e sento realmente le forze scivolarmi lungo il corpo e perdersi nell'aria ormai satura dai nostri respiri.

«Perché tu riesci a ricordarmi cosa cazzo ho perso per colpa di quella puttana di tua madre!», grida sporgendosi verso di me e le parole arrivano come un pugno ben assestato alla bocca dello stomaco che non posso evitare. Gli occhi sono iniettati di sangue, la rabbia è palpabile a tal punto da sentirla trapassarmi come una lama tagliente che ha appena incominciato a colpire.

«Io non lo sapevo», mormoro singhiozzando.

«Non piangere, cazzo!», sobbalzo quando colpisce ripetutamente il volante. «Non sai cosa ho perso», aggiunge in un sussurro appena percettibile.

«Voglio scendere, per favore», lo supplico tirando su col naso, mentre le lacrime amare di questa scomoda verità continuano a rigarmi il volto.

«Vuoi andartene? Vuoi continuare a fare la vittima», si allunga e apre la portiera. «Vai pure. Io non ti fermerò di certo, anzi, non sarei nemmeno dovuto venire, è stata solo una perdita di tempo», scendo lasciando scivolare la coperta sul sedile, ma prima di chiudere la portiera mi chino verso di lui, che sembra quasi aggrappato con le mani al volante.

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