Capitolo 27 Damon

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  Sputo le parole sapendo bene che la ferirò, che la porterò a odiarmi ed è esattamente quello che voglio, è l'unico modo per tenerla lontana da me. Credevo potesse essere facile prendermi gioco di lei, sarebbe stato anche fin troppo semplice entrare nel suo mondo e uscirne vittorioso come ho sempre fatto con le altre.

Ma lei non è come le altre, è questo il problema. I suoi occhi riflettono un'immagine di me che non avevo mai visto. Non me ne ero reso conto fino a quando il suo sguardo si è insinuato dove il sole ha smesso di sorgere, dove un terreno troppo arido non permette a niente di poter nascere.

«IO NON HO COLPE, LO CAPISCI?», grida, graffiando la mia anima che sento lacerarsi a ogni parola. Si allontana da me scuotendo il capo, accompagna quel gesto con le mani che sorreggono la testa come se pesasse troppo.

«È vero, ma per me non fa differenza. È tua madre!», scandisco con freddezza, allo stesso tempo che trattengo l'impulso di avvicinarmi a lei. Le unghie si conficcano nei palmi delle mani per non dar voce all'egoismo di volerla.

«Tutto questo solo perché tuo padre si è messo con lei? È questo che vuoi dirmi? Anche io sono stata abbandonata, Damon...», apro la porta senza lasciarla finire di parlare.

«È meglio che te ne vai, Allyson», non può capire quello che mi tormenta.

«Sai, Damon, hai detto di volermi», a voce le si incrina e l'azzurro dei suoi occhi è oscurato dal grigio della tempesta che si sta abbattendo fra di noi, «ma non puoi volere qualcosa che hai già perso».

È il profumo della sua pelle, dei suoi capelli che mi sfiorano mentre esce a colpirmi come un pugno allo stomaco che mi mozza il fiato.

La guardo scendere le scale in tutta fretta, resto lì, appoggiato allo stipite della porta, fino a vederla sparire oltre quel portone che non dovrà più varcare. Le sue orecchie non hanno udito la voce straziata di una madre che implorava a un cielo troppo scuro di non portarsi via la propria bambina. Non ha visto il sorriso morire per sempre su un volto che avrebbe dovuto avere tutta la vita davanti per sorridere. Non ha sentito il proprio cuore fermarsi al suono di quelle parole che hanno cambiato per sempre la mia vita... la nostra: di mia madre e soprattutto quella di Arleen.

Sbatto furioso la porta sulla quale mi lascio scivolare, la testa si solleva verso il soffitto dove la mente ripercorre quei momenti che sono più indelebili dei miei stessi tatuaggi. Merda, Al. Impreco contro quel sorriso che si beffava di me il primo giorno di fronte alla segreteria. Contro la bocca carnosa, racchiusa nella morsa dei suoi denti che mi richiamava senza potermi opporre. Il suo sapore così dolce ha scacciato via l'amaro dei miei pensieri... anche se per poco. Mi alzo in uno scatto non appena riconosco il rombo della sua moto.

Non ha senso. Ripeto a me stesso mentre raggiungo la finestra. Gli occhi seguono la sua figura percorrere il vialetto che appena riesco a intravedere per colpa delle alte siepi. Solo quando parte a tutto gas la vedo aggrappata ad Alec.

«Che cazzo sta facendo?», tuono nel silenzio che mi avvolge. Non doveva correre da lui, non dopo le cose che le ho raccontato. Perché? Non ha senso. Dico a me stesso. Prendo il cellulare e lo chiamo. Squilla a vuoto, lascio un messaggio alla fine della voce robotica della segreteria. «Figlio di puttana, le ho raccontato tutto. Stalle lontano o te ne farò pentire!», lo minaccio.

Vado verso la camera, sfilo dal borsone ancora da disfare una maglia e l'indosso. Prendo le chiavi della macchina da sopra il tavolo. Sollevo il cappuccio non appena sono in strada, mi guardo attorno. Il buio della notte sfiora ogni cosa coprendola di nero, lo stesso colore che dipinge il mio umore.

L'hai voluto tu. Istiga la stronzetta. Avevi idee migliori? Domando. La verità. Mi ricorda. È quello che ho fatto, per la prima volta ho saputo fermarmi e dire basta, prima che potesse essere troppo tardi. Ripeto nella mia testa mentre i cavalli della mia Dodge Daytona si fanno sentire, colmando questa quiete apparente.

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