Capitolo 22 Damon

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«Altrimenti?», lo sfido sollevando il mento con un sorriso sghembo che compare spontaneo sul volto. «Non puoi minacciarmi, ti ho fatto incassare più soldi io di quanti ne hai fatti in due anni della mia assenza», gli ricordo e con un gesto della mano indico il locale. «Arredamenti nuovi, nuovo personale, i tuoi vestiti», afferro il colletto della sua giacca. «Credi che non sappia come hai fatto girare le voci del mio ritorno in città?». Su una settimana, gareggiavo tre sere su quattro. I soldi, per quanti ne girassero, erano diventati quasi superflui. La mia macchina, uno dei tanti piaceri che mi ero tolto.

«Toglimi le mani di dosso», protesta sistemandosi la giacca.

«Allora non rompermi il cazzo. Siamo stati noi a crearti il giro. Posso togliertelo quando voglio», e questa volta sono io a minacciarlo mentre mi scolo il terzo bicchiere di vodka liscia.

«Non cambia il fatto che mi devi una lotta», continua. La mia mente perversa sta elaborando il tutto e la bocca parla ancora prima che il cervello possa fare da filtro.

«Okay. Torno in gioco a pieno ritmo, come ai vecchi tempi. Tre giorni su quattro», gli propongo e i dollari compaiono al posto delle sue pupille. «Voglio il doppio del compenso e un appartamento. Prendere o lasciare», dico con fermezza senza degnarlo di uno sguardo, in attesa della sua risposta.

«Un appartamento?», domanda sorpreso.

«Hai capito benissimo, uno dei tanti che hai costruito a spese dei lividi degli altri», replico sarcastico. La sua mano si protende verso la mia che non esito a stringere.

Cos'hai fatto?

Non sono affari tuoi.

Zittisco la stronzetta nella mia testa e scendo nello scantinato del locale dove prendono vita i giochi.

Guardo la gabbia vuota, i graffiti che imbrattano i muri e raggiungo il grande sacco appeso al soffitto che tutti usano come scena poco prima di salire sul ring. Sfilo la felpa dalla testa gettandola su una panca lì di fianco e lo punto, senza distogliere lo sguardo dalla pelle consumata. Incomincio a colpire, sinistro, destro.

Il sacco dondola, le orecchie sentono solo il rumore della catena che lo sorregge cigolare mentre libero la mente. Nessuna fasciatura a proteggermi le mani, solo la pelle nuda che incomincia a spaccarsi nel punto diventato troppo debole, dove le tante cicatrici non riescono più a guarire, un po' come la mia anima che si colora di un nero sempre più cupo.

E continuo a colpire senza sosta, con la testa china che si alleggerisce a ogni pugno pestato.

Rivoli di sudore scivolano lungo l'addome, mi fermo senza fiato, butto uno sguardo alle mani ormai spaccate colorate di un rosso intenso. Il telefono squilla distraendomi da quella visione. Lo sfilo dalla tasca del jeans e sul display, oltre a notare chi mi sta chiamando, vedo le ore che sono volate senza rendermene conto.

«Ti manco?», chiedo sarcastico raccogliendo da terra la felpa con la quale tampono il sudore.

«Dove cazzo sei?», ringhia.

«Va tutto bene, non preoccuparti, non sono poi così lontano», gli spiego.

«Hai mollato la scuola?», sbraita Cody e distanzio il telefono per evitare che mi spacchi un timpano.

«Sì, diciamo che lo so dato che ho consegnato io i moduli», sento un frastuono dall'altro capo del telefono e capisco che la mia influenza ha contagiato anche lui.

«Sedia?», domando.

«Coglione», risponde. «Non mi hai detto niente e sei sparito così. Credevo che fossimo amici».

UN AMORE PROIBITO Cuori SpezzatiWhere stories live. Discover now