Capitolo 22 Damon

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Non è abbastanza, ma non lo sarà mai.

Un mese, era stato solo un mese in riformatorio, mentre mia sorella non riavrà più la sua vita ed è solo colpa sua, sua e di mio padre, grido dentro me stesso sentendo la mia anima riprendere un'altra volta a sanguinare.

Non riesco ad accettarlo, a convivere col peso dei ricordi che sembrano scivolarmi dalle mani giorno dopo giorno.

E se un domani non riuscissi più a ricordare il suo sorriso o le sue risate e rimanesse solo il vivido ricordo di lei che non riesce a riconoscermi? Salgo in macchina e con tutta la disperazione che mi rotola addosso come tanti piccoli spilli, afferro il volante sul quale per qualche istante poggio la testa cercando di riprendere fiato.

Rivederla è stato come un pugno alla bocca dello stomaco.

Metto in moto e con lo stridio degli pneumatici sull'asfalto vado verso il centro.

Cosa faccio ora?

Merda.

Passo una mano fra i capelli che quasi strattono in balia degli eventi. Per una volta vorrei prendere a pugni solo me stesso. Oltrepasso il lungo viale alberato, dove il sole a stento riesce a filtrare dalla sommità dei grandi alberi che si stagliano ai bordi della strada.

Sembra di vedere quasi la stessa luce che non riesce a raggiungere più la mia di strada. Sulla Main scocco un'occhiata al palazzo grigio dove lo stronzo sarà seduto comodamente dietro la sua scrivania, ignaro che la figliastra abbia giusto qualche problema.

Rido amaramente dato che non si preoccupa neppure di noi, si limita a mandare un assegno mensile a mia madre del quale io non voglio sapere nulla. È da quando ho scoperto che ci aveva tradito che ho iniziato a provvedere a me stesso. Con le lotte clandestine ho sempre guadagnato più che bene, alla gente piace vincere soldi facili e per me non è solo un modo per tirarmi su un bel gruzzolo in pochi minuti, ma anche un modo per dar sfogo ai miei demoni. Le nocche sbiancano per quanto stringo forte il volante, rallento appena di fronte all'edificio.

Non farlo.

Nella via di fronte, l'altra alternativa per la quale decido di optare.

Scendo e poco prima di entrare leggo l'ennesimo messaggio di scuse di mia madre, non rispondo come ho fatto per tutti gli altri.

Non sono arrabbiato con lei, i casini li ho fatti io, ma le parole sono da sempre mie nemiche e non saprei cosa dirle. Il silenzio talvolta vale più di mille parole non dette. Kimberly, con il suo non-vestito, è dietro al bancone illuminato dalle solite luci soffuse, clienti abituali stanno già mettendo negli slip delle ragazze che scivolano lungo i pali qualche banconota. Scuoto il capo quasi disgustato.

«Il solito, Kim», dico sedendomi sullo sgabello.

«Jack è incazzato nero», esclama versandomi il liquido trasparente come acqua ma che brucia più del fuoco stesso, mentre lo sento scivolare in gola.

«Ah sì?», faccio con noncuranza poggiando il bicchiere vuoto, con un cenno della testa le indico di versarne un altro.

Jack è uno dei soci del Masters, un grande cazzone che pensa solo ai soldi. Deve avercela con me per la lotta alla quale non ho partecipato.

«Gli hai fatto...», si interrompe e vedo i suoi occhi verdi oltre la mia figura, mi volto e guardo Jack nel suo completo da ricco sfigato.

«Sanders, mi devi un mucchio di soldi», mi informa Jack con tono minaccioso sedendosi al mio fianco.

Rido e afferro il bicchiere.

«Questo è quello che credi tu», rispondo.

«Non farmi incazzare», ribatte rabbioso e in uno scatto i miei occhi sono puntati contro i suoi.

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