Capitolo 21 Allyson

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Non ti rendi conto di quanto possano essere lunghe e interminabili le giornate fino a quando non ti ritrovi a fissare il soffitto per un tempo indefinito. È stata una settimana nella quale mi sono nascosta, sì, è la parola giusta; mi sono rifugiata dietro la scusa di un banale raffreddore per sfuggire al suo sguardo, al suono della sua voce, ma soprattutto alle sue bugie. Io e i miei libri sui quali ho pianto, ho riso per poi piangere ancora una volta, in balia delle emozioni dei personaggi che si mescolavano alle mie.

Ho spento il cellulare, giustificandolo a mio padre in un momentaneo guasto per farmi chiamare sulla linea fissa di casa. Il lato positivo di questo isolamento dal mondo esterno è stato: una buona dose di film ai quali dare la colpa delle lacrime che mi rigavano il volto senza che ormai ci facessi più caso, la cioccolata che ho divorato in quantità industriali e qualche parola che sono riuscita a scambiare in più con mia madre. Solo che ora, mentre lego i capelli e mi guardo allo specchio, cerco le forze per affrontare il ritorno al campus; non posso perdere altre lezioni, non posso lasciargli prendere anche il mio futuro, si è divertito abbastanza a mie spese.

Avrei dovuto ascoltare la mia coscienza e non quelle stupide emozioni che si innescavano ogni volta che il mio sguardo precipitava nel suo e si perdeva nel buio della sua anima.

Damon è solo un grande errore, il peggiore che potrei commettere.

Faccio una lista di tutti i suoi difetti, perché ne ha molti e perché mi distrae dalle cose che riescono ancora a strapparmi un sorriso.

Primo fra tutti il mio ritratto. Mi ero illusa che l'avesse fatto perché forse, in quel momento, stava pensando a me.

Quanto si può essere stupide, Allyson Evans?

Una volta di troppo.

Scendo nella cucina dove trovo la colazione pronta, guardo il piatto con le uova strapazzate e il bacon accompagnato con una spremuta d'arancia.

«Ti senti meglio oggi?», domanda mia madre sedendosi al tavolo con me.

«Sì, oggi va meglio», rispondo prendendo con la forchetta un'abbondante porzione di uova e continuo ad abbuffarmi mentre vorrei poterle dire che non sto per niente bene, che il mio fratellastro mi sta rovinando l'esistenza prendendosi gioco di me e che io glielo sto permettendo. Annego quei pensieri col succo d'arancia e mi alzo per prendere altre uova dalla padella.

«Sono felice che ti sia tornato l'appetito», dice mia madre con un sorriso radioso. Finisco di mangiare e butto un occhio all'orologio che mi avvisa di essere in ritardo per il bus; prendo la giacca con il logo del Campus dal guardaroba e l'infilo.

«A più tardi», dico ed esco per raggiungere in tempo la fermata. Siedo in fondo al bus e metto gli auricolari del mio iPod.

È questo il tuo modo di affrontare la giornata? In effetti no, ma è rimasto solo questo.

Le tracce di quello strano gruppo, I Muse, si susseguono una dietro l'altra; le avevo scaricate quella sera di una settimana fa, dopo aver scoperto l'ennesima bugia, perché avevo bisogno di rivedere i suoi occhi sorridermi, delle sue risate, della sua voce che, per la prima volta con tono calmo, si insinuava in me mentre mi accompagnava a Boston.

Anche se era tutto finto, anche se viveva solo nella mia testa, non riuscivo a fare a meno di ascoltare ogni brano fino a impararlo a memoria. Immaginavo Damon alla guida della sua Daytona blu elettrico, oppure nella sua stanza steso sul letto come l'avevo visto nella mia camera degli ospiti.

L'autobus ferma la sua corsa e con lui si arrestano anche i miei pensieri. Mi volto verso il campus, notando diversi studenti radunati in gruppetti e sentendomi solo fuori luogo, come se avessi perso il mio posto nel mondo.

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