Capitolo 14 Damon

Comincia dall'inizio
                                    

«S... Scusa volevo solo...», le volto le spalle e la liquido con un semplice gesto della mano.

«Ti chiamo io».

Salgo in auto, accendo la radio che sparo al massimo per far cessare tutte le voci che affollano la testa. Pigio forte sull'acceleratore, tengo stretto il volante e gli occhi inchiodati alla strada, accompagnato dai fischi delle gomme che stridono a ogni curva mentre mi dirigo verso il centro della città.

Il telefono vibra nella tasca. Non ora. L'edificio, grigio fumo di Londra, si staglia sulla città a indicare quasi chi comanda. Rido mentre scendo e sbatto lo sportello della mia Daytona. Sollevo il cappuccio della felpa sulla testa e mi avvio verso il grande portone in legno di ciliegio, varco l'ingresso, supero alcuni uffici fino a raggiungere l'ultimo che si affaccia su una stanza ovale.

«Lei è?», domanda la segretaria scattando in piedi mentre vede che punto dritto verso la porta.

«Fottiti», mi presento ed entro senza bussare. Mi godo per un attimo la sua espressione sbalordita.

«Sindaco Parker, non sono riuscita a fermarlo», prova a spiegare imbarazzata la donna alle mie spalle sulla soglia della porta.

«Non ci riesce mai nessuno», le scocco un'occhiata. Lui si alza dalla sua grande poltrona di pelle nera. «È tutto a posto, Celine, puoi andare», con le mani dietro la schiena mi aggiro per l'ufficio che noto essere stato rimodernato; fingo interesse avvicinandomi a uno dei tanti quadri appesi.

«Ti scopi anche lei?», domando mentre osservo una riproduzione della Venere di Botticelli affissa di fronte a me.

«Come stai?», chiede facendo finta di non aver udito. Lo guardo, gli anni sembrano non essere passati per lui.

«Come sto?», con la mano soffoco le risate. «Dopo due anni non ti sembra tardi, PAPÀ?», si siede, quasi sprofondando nella poltrona alle sue spalle. Come vorrei che toccasse anche lui il fondo come l'ha fatto toccare a noi.

«Sei tu che non volevi parlarmi...», prova a dire e mi avvento contro di lui sbattendo i palmi delle mani sulla sua costosa scrivania.

«Volevi anche parlarmi dopo quello che ci hai fatto?», ringhio.

«Non volevo che lo scoprisse così», si giustifica e io colpisco ancora il legno pregiato facendolo sobbalzare.

«Cosa? Che ti scopavi la tua segretaria mentre lei era a casa a prepararti il pranzo, lurido bastardo?», con un gesto butto tutto quello che è di fronte ai miei occhi per terra. Lui resta fermo senza proferire parola, non tenta nemmeno di fermarmi. «È colpa tua», il petto si solleva velocemente, schiocco la mascella con i pugni tesi lungo il corpo, sono così vicino da sentire il suo respiro prendere a correre e gli sputo addosso. Chiude gli occhi, prende il fazzoletto dal taschino e si pulisce il volto.

«Mi spiace per come sono andate le cose», continua con un fil di voce.

«In una settimana non sei venuto nemmeno una volta», gli ricordo. Sferro un calcio alla sedia alle mie spalle al ricordo di quei corridoi asettici, dell'odore intenso di disinfettante, al colore bianco delle pareti e al suono incessante di quel bip che mi martellava il cervello e che avrei tanto voluto spegnere.

«Hai ragione a essere arrabbiato con me, tua madre mi ha detto...», lo fulmino con lo sguardo.

«Non la devi nemmeno nominare. Se lei per qualche strana ragione ha deciso di perdonarti, sappi che io non lo farò mai», dichiaro senza nessun ripensamento, nemmeno per quei ricordi felici che tengo sepolti in un angolo remoto della mia memoria.

«Allora perché sei qui?», chiede confuso. Poveretto, credeva davvero che fossi tornato per far pace? Coglione. Rido mentalmente.

«Sono qui perché la figlia della tua puttana si vede con Alec; tienila lontana da lui». Lo vedo raddrizzarsi sulla sedia per la sorpresa. Abbozzo un sorriso sghembo. «Sì, PAPÀ, conosco la mia cara sorellastra, ALLY e sai, devo ammetterlo, non è niente male», lo prendo in giro.

UN AMORE PROIBITO Cuori SpezzatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora