Sharon: La Maledizione Dell'A...

By Manpolisc

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•Primo libro della trilogia• Sharon Steel è una ragazza di diciassette anni che vive a Ruddy Village, una cit... More

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Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
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Capitolo 1

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By Manpolisc

Sento il rumore dei suoi passi. È una donna, ne sono certa. Si sta avvicinando velocemente, e il ticchettio dei suoi tacchi sull'asfalto sembra confermarlo. 

Fuori il tempo non è dei migliori, sebbene siano i primi giorni di giugno. Nuvoloni grigi giungono rapidi, impazienti di liberarsi di un peso più grande di loro. Ogni tanto un lampo illumina l'oscuro cielo e l'intera cittadina, seguito da un tuono che esplode subito dopo. Un forte vento si è alzato e costringe le foglie degli alberi a una violenta danza. Le scuote in ogni direzione, staccandole dai rami e trascinandole in luoghi lontani. Un altro fulmine squarcia il cielo, l'ennesimo tuono, la prima goccia.

Un'ombra appare sul marciapiede, confermando la mia ipotesi man mano che diventa più delineata. Sorrido dietro il vetro della finestra mentre il mio sguardo cade sulla donna slanciata appena apparsa sotto casa mia. Continua ad avanzare a passo svelto, ma sembra che la sua attenzione sia stata catturata da qualcosa di estraneo alla mia vista. Tuttavia, un'altra folata di vento la costringe a bloccarsi, impossibilitata a proseguire oltre a causa della sua intensità. Si tiene ben saldo in testa il cappello rosa, abbinato al vestito, e apre l'ombrello prima che la pioggia inizi a farsi più insistente. Osserva anche meglio ciò che aveva già ottenuto la sua curiosità un attimo fa: la casa in cui vivo. Per un breve attimo incontro il suo sguardo, ma non sono sicura che mi abbia davvero notato. Capisco dal modo in cui serra le labbra, dall'espressione del volto e dal tremolio delle mani che è genuinamente incuriosita, ma allo stesso tempo spaventata da cosa possa nascondere l'edificio che ha di fronte. Non so perché possa esserlo. La casa è come qualsiasi altro edificio in città, non ha niente di particolare. Forse la donna è così attenta alla villetta in cui vivo perché è un po' vecchia, costruita con scuri mattoni, rispetto a qualcuna più moderna in altre zone della cittadina. Quest'atmosfera di antico potrebbe dare alla casa un'aria sinistra, nonostante il giardino che precede l'ingresso sia accogliente per me. È pieno di vasi contenenti diversi tipi di fiori, anche questi ultimi scossi dal vento. Uno dei recipienti di plastica è addirittura caduto, rovesciando la terra sul viale.

Chiudo gli occhi, concentrandomi su quella donna. Intorno a me sta gradualmente calando un silenzio disumano, come se mi trovassi immersa nel nulla. Solo dopo un po' percepisco un cuore battere. Comprendo subito che non si tratta del mio, ma di quello della donna in strada. Sta scappando, mi è chiaro, anche se non so da cosa, forse dal temporale. Poi un secondo cuore pulsante si unisce al primo. È molto vicino, è lì, è...

- Sharon! - La voce di mia madre mi fa sussultare e mi riporta alla realtà. I suoni di ciò che mi circonda si riversano nuovamente nelle mie orecchie: il ticchettio delle lancette dell'orologio, che segnano le 20:45; il vento che urla, sovrastato dai tuoni; il mio cuore che batte.

- Cosa c'è? Mi hai fatto prendere un colpo... - torno a guardare fuori dalla finestra, alla ricerca della donna, ma è scomparsa. Al suo posto le gocce di pioggia cadono impetuosamente sull'asfalto, sugli alberi, sulle case. Perfino la sua ombra sul marciapiede non è più delineata dalla luce dei lampi e dei lampioni. Di lei non c'è traccia, e la via è nuovamente deserta. Osservo quindi le goccioline gareggiare verso il basso sul vetro. Quelle che non ce la fanno da sole si legano tra di loro, diventando grandi, forti e veloci. Mi ricordano tanto le persone.

Lentamente, nell'abitazione in prossimità della mia, la sagoma scura della vicina fa capolino dietro alle tende chiare, che sposta per guardare fuori. Davanti a quello spettacolo, sospira tristemente dietro al vetro della finestra. Un tempo del genere quando è giugno e l'unica cosa che si vorrebbe fare è rilassarsi al sole non mette in un buon stato d'animo. Ma forse a lei non interessa l'abbronzatura, bensì i suoi gerani. Quando il tempo migliorerà, avrà un bel lavoro da fare. Sono tutti caduti e molti di loro sono in condizioni pietose. È un miracolo che il terreno non sia già diventato una poltiglia che potrebbe risucchiare chiunque, solo poggiandoci un piede sopra. Un lampione si è spento, oscurando un tratto di strada e donandole un'aria molto sinistra, come accade sempre quando cala il buio. Sembra una di quelle vie caratteristiche dei film horror in cui c'è uno psicopatico dietro l'angolo, o qualcosa di non umano, pronto ad uccidere i protagonisti. Per fortuna gli altri lampioni sono ancora accesi, e la loro luce evidenzia la pioggia che continua a venire giù con furia. I marciapiedi sono già colmi di pozzanghere, e altre stanno prendendo forma in mezzo alla strada.

La signora anziana richiude le tende. Subito dopo, un vaso su uno dei suoi davanzali cade giù, rompendosi in mille pezzi. La terra e i fiori si spargono in giro, lottando con il vento che minaccia di trascinarli con sé. Quando mi accorgo che mia madre è ancora sulla soglia della porta, distolgo lo sguardo dallo scenario temporalesco e lo sposto verso di lei. Alla fine, non succede niente di nuovo.

- Che cosa stai facendo? - Domanda mentre alza un sopracciglio con espressione interrogativa, incrociando le braccia al petto. Potrebbe farmi anche paura, se solo fosse più grande. La sua statura minuta, infatti, gioca a suo sfavore.Nonostante mostri una faccia seria, esserlo sul serio non le riesce. O, almeno, su di me non ha mai avuto tanto effetto. Non che ce ne fosse reale bisogno, dato che non le ho mai causato problemi.

- Niente. - Rispondo con un sorriso innocente mentre lei sbuffa, rilassando le braccia lungo i fianchi.

- È mezz'ora che ti chiamo. Non isolarti sempre dal mondo. - Cerca di parlare con voce ferma e dura, ma non ci riesce. Ha un tono così dolce e melodioso che non sarebbe mai in grado di rimproverare qualcuno per davvero. Il suo viso è piccolo, con un sorriso che sembra timido e grandi occhi verdi che esprimono spesso felicità. È la donna più bella e gentile che conosca (non che ne conosca molte), con i suoi bei capelli rossi sempre tirati in uno chignon, adeguatamente legati per impedire a delle ciocche di scappare. Il contrario di me, ecco.

- Sto solo osservando. - Affermo quasi colpevolmente, abbassando lo sguardo sulle mie mani e facendo inseguire i pollici. Immagino lei già a roteare gli occhi al cielo, come spesso fa prima di rispondermi dopo un paio di secondi in silenzio.

- Sei identica a tuo padre. - Commenta con un filo di tristezza, riuscendo a trattenere un sospiro malinconico che di solito libera quando si parla di lui. - La cena è pronta. Scendi. - si chiude la porta alle spalle quando esce, lasciandomi sola. Non sono identica a mio padre, anche se non posso saperlo visto che non l'ho mai conosciuto. È morto prima che nascessi, e guardando una semplice foto o basandomi su quello che dice la gente non posso affermare di conoscere una persona. La verità può anche essere distorta. Le uniche cose che so è che ho il suo stesso colore di capelli e occhi, poi era del tutto diverso da me. Aveva le spalle larghe, che gli donavano una statura imponente, con degli scuri capelli sbarazzini che gli incorniciavano il volto, sempre solcato dalle rughe di espressione intorno agli occhi castani. Non si lasciava intimorire da nessuno, facendo valere sempre il suo pensiero, pronto a combattere per la giusta causa. Almeno, questo è quello che mi è stato raccontato. Non rimugino molto su mio padre, non sono insensibile, ma è morto e non potrò mai conoscerlo. La gente muore tutti i giorni, è una cosa naturale.Io, solo, preferisco non soffrire.

***

Non appena mi siedo a tavola, mia madre mi porge un piatto con una fetta di carne e i piselli, regalandomi un sorriso pieno di tenerezza. So quanto sia importante per lei cenare insieme la sera. È l'unico momento in cui possiamo parlare dato che lei lavora tutto il giorno ed io sono impegnata con lo studio. D'altronde, siamo solo noi due, sebbene il tavolo rettangolare in legno di quercia al centro della cucina abbia quattro sedie, le une di fronte alle altre. Secondo me, posizionate appositamente per far percepire maggiormente la solitudine che alleggia in questa casa. Almeno, la cucina non è molto grande ed è povera di mobili, giusto quelli essenziali.

Giacenti sulla tovaglia di un giallo chiaro, con sopra disegnate delle palline verdi e arancioni che si fondono insieme, afferro le posate con l'intenzione di tagliare la carne, visto che mia madre ha già iniziato a gustarsi il pasto. Nonostante le tendine color crema della finestra al di sopra del lavello bianco siano state tirate, riesco comunque a intravedere i fulmini all'esterno. Questi ultimi illuminano la stanza, avvolta in una gialla luce soffusa, ed evidenziano il legno chiaro dei banconi. In particolar modo, rendono ancora più acceso il rosso delle mele, contenute in un cesto di legno su uno dei banconi. Il silenzio viene interrotto saltuariamente dal rumore dei tuoni e dal frigo, nell'angolo della cucina, accanto al fornello nero. L'orologio bianco sul muro segna quasi le nove. Questo si trova accanto alle mensole dove ci sono piatti, bicchieri e tazze, al di sopra dei vari banconi dove ogni tanto io e mia madre cuciniamo insieme. Anche se ciò è molto raro perché mia madre lavora al comune, ed è così piena di fogli e documenti di cui deve occuparsi che a volte è costretta a continuare anche a casa.

Il comune si trova proprio al centro della cittadina, nella piazza centrale, l'unica presente in realtà. Il mio è un piccolo villaggio al confine tra il Nevada e la California, completamente nel nulla. È così piccolo che non è riportato neanche sulle mappe e alcuni addirittura pensano che non esista. La cittadina, Ruddy Village, ha ottenuto questo nome poiché più di cento anni fa è stata colpita da un'epidemia di peste, che si narra aver avuto inizio proprio qui. Tuttavia, quasi nessuno si è posto delle domande sul perché le sia stato dato un nome che ricordi questo episodio. L'epidemia scoppiò proprio nel mio quartiere, in una casa non molto lontana. Si racconta che una coppia vivesse lì, ma la moglie si ammalò dopo essere ritornata da un viaggio. Inoltre, a causa delle pessime condizioni igieniche, la sua situazione peggiorò drasticamente. Non passò molto tempo che anche il marito si ammalò, e così la maggior parte delle persone. Quella casa si trova ancora lì, nello stesso punto in cui è stata costruita. È stata ristrutturata più volte, ma è disabitata da diciassette anni. Nessuno ha mai voluto comprarla, e quei pochi che decidevano di viverci per un breve periodo scappavano terrorizzati dopo poche settimane. Molti credono che sia infestata. Il sindaco si è sempre rifiutato di demolirla nonostante le richieste, ritenendola ormai un monumento storico. Non capisco come una casa che ricordi la peste possa essere considerata tale, ma egli ribatte sempre dicendo che la storia non è fatta solo di periodi ricchi e prosperi, ma anche di molti colmi di sofferenze che non vanno mai dimenticate.

- Non mangi? - Chiede lei con la bocca piena. chiede lei con la bocca piena. Mi rendo conto di aver fatto vagare il pensiero di nuovo, cosa che mi succede fin da piccola e ultimamente più spesso. Sono rimasta infatti con la forchetta e il coltello in mano, senza aver tagliato ancora neanche un pezzo di carne. Annuisco alla domanda di mia madre prima di dividerne una piccola parte e portarla alla bocca. In realtà sto morendo di fame, non ho mangiato niente tutto il giorno. Quando mia madre è fuori, tendo a dimenticarmelo, così come non ricordo di fare qualsiasi altra cosa che non implichi lo studio. E quando non ho la testa tra i libri, passo il tempo leggendo, studiando o ascoltando la musica. Non ho voglia di fare altre cose. Anche perché questo sentimento dentro di me che mi divora giorno dopo giorno, come se fosse un buco nero, non mi abbandona mai. Percepisco come se mi stesse risucchiando. Mi sto risucchiando. Credo sia come un sentimento di solitudine dentro, ma allo stesso tempo non lo è. Non so ben descriverlo. È come se mi mancasse qualcosa, un qualcosa che credo nessuno mi potrebbe mai dare poiché a parer mio è disumano. È impossibile per me sentire la mancanza di ciò che non conosco e di cui non comprendo neanche l'esistenza, eppure lo percepisco essere lì. Ma forse è tutto nella mia testa. Sono sicura che sia così. Tuttavia, ho imparato a conviverci, ho dovuto. Non voglio dare preoccupazioni a mia madre, già ne ha troppe. Infatti, mi sono impegnata a non evitare il contatto con altre persone, anche se esco solo con lei che considero la mia migliore amica, Delice. Ci conosciamo da quando eravamo piccole e non ci siamo mai allontanate, sebbene sia completamente il mio opposto. È una ragazza piena di energia e la sua parte migliore è il sorriso poiché quando me ne rivolge uno, due piccole fossette si formano sulle sue guance, mostrando una dentatura perfetta. Non ha mai portato l'apparecchio. Ha dei lunghi capelli biondi che non hanno davvero una forma propria dato che tende sempre a cambiarli: lisci, ricci, mossi. Alcune volte sperimenta anche acconciature nuove. Credo che abbia una vera e propria fissazione. Le si può toccare tutto, ma non i capelli se si tiene alla propria vita. I suoi occhi sono di un verde acqua, di un colore così raro che è difficile da trovare. Inoltre, considererei il suo corpo perfetto, con le curve al posto giusto. Mi meraviglio che non sia una modella o una delle ragazze più popolari della scuola, ma poi mi ricordo che ha deciso di essermi amica, quindi non mi sorprendo se anche lei viene esclusa di tanto in tanto da alcuni eventi. Un'altra delle sue fissazioni sono i vampiri, non quelli che si possono trovare nei film horror e che fanno accapponare la pelle, quei vampiri veri. Adora invece quelli dei film o delle fan fiction, muscolosi e pericolosi, di una carnagione bianca da far paura e con sguardo magnetico, dolci e forti. Insomma, belli ma dannati.

- Non dirmi che non ti piace più. - Mi guarda. Dopo il primo pezzo assaggiato, sono rimasta a girare i piselli nel piatto. Scuoto la testa, riprendendo a mangiare. Dopo qualche attimo di silenzio, riprende a parlare. - Che cosa hai intenzione di fare quest'estate? - È sempre eccitata quando arriva l'estate, ma per me è una stagione come le altre. In fin dei conti la mia routine non cambia tranne che per lo studio, e sono felice di ciò. Non devo passare le giornate sui libri e soffrire di mal di schiena per studiare qualcosa che avrò già dimenticato a giugno.

- Niente di particolare. - Alzo di poco le spalle, non avendo la benché minima idea di cosa farò questa estate. Ogni anno è la stessa storia, dato che lei cerca di organizzare le mie vacanze, incoraggiandomi a divertirmi, io ribatto e finiamo per litigare.

- Magari facendo nuove amicizie... -

- Loro non vogliono essere miei mici. – La interrompo con tono abbastanza freddo e distaccato per non farle notare che mi dispiace di ciò, ma non posso farci niente, infine porto unaltro pezzo di carne in bocca. Fin da piccola ho avuto problemi nel crearmidelle amicizie, spesso facevo la cosa sbagliata, dicevo la cosa sbagliata o miponevo nel modo sbagliato. Sono davvero timida a volte e questa cosa di certonon mi aiuta. Invece, con Delice è stato tutto diverso. Lei è stata la primapersona che alla scuola primaria si è avvicinata a me per fare amicizia, e non cisiamo più divise dal momento in cui mi ha sorriso. Se lei non avesse fatto ilprimo passo, probabilmente non avrei neanche lei come amica a quest'ora, ma hoevitato di allontanarla nonostante a volte volessi. Mi dicevo che era perproteggerla da me, credo per una delle mie tante turbe mentali inutili.

- Sto solo dicendo che Delice ha anche altri amici e... -

- ... e non la definiscono una pazza. - Concludo.

- Non lo sei. - Afferma con voce risoluta, sicura di sé. E per un momento ci credo anche, ma poi penso che lei non è a conoscenza di cosa vedo a volte. Immagini che prendono vita nella mia mente, forse ricordi o visioni che però non riconosco come miei. Tuttavia, a volte sembrano così reali che credo che siano accaduti realmente, anche se non ne ho memoria, o non ancora forse. So solo che arrivano e non posso fermarli o controllarli, soprattutto quando si manifestano sotto forma di sogni. Forse, sono davvero segni di pazzia.

- E se non fossi normale? - Chiedo in un sussurro, incontrando i suoi occhi verdi.Cerco di non far vibrare ulteriormente la mia voce già spezzata. Non vogliopiangere anche davanti a lei. Non voglio farmi vedere debole da nessuno.

- In che senso? - Chiede, cercando di non far trapelare la preoccupazione nel suo timbro di voce, ma colgo comunque il suo timore. Forse è spaventata da me, oppure dall'idea di avere una figlia pazza.

- Diversa dalle altre persone. Non mi comporto o sono come loro. - Decido di dire alla fine. Non ho voglia di confessarle tutto ciò che penso e darle altre paure. So bene di non avere un carattere facile.

- Non sei neanche questo. – Dice dopo aver liberato un sospiro di sollievo, chiudendo per un attimo gli occhi con un'espressione più tranquilla. Li riapre e incrocia il mio sguardo. - Se per te essere una ragazza intelligente significa essere diversa, allora lo sei. Questo quartiere è troppo stupido per non soffermarsisolo sulle questioni superficiali. - Mi rassicura prima di mangiare l'ultimo pezzo dicarne, poi si pulisce le labbra con un fazzoletto e si mette in piedi. - Devo finire del lavoro al computer. Puoi lavare tu i piatti? - Mi sorride.Annuisco, ricambiando quel gesto di tenerezza che mi ha rivolto e seguendola con lo sguardo mentre si dirige in salotto. Forse ha ragione, è tutto nella miatesta. Questo mondo è troppo superficiale per comprendere pienamente ciò cheegli stesso ha da offrire. Ma alla fine cosa ne posso sapere io? Sono soloSharon Steel, non sono nessuno se non una ragazzina che stacercando di comprendere come funziona la vita.

Finisco di mangiare anch'io prima di posare i piatti nel lavandino e togliere la tovaglia, sistemando un po' in giro. Decido di tornare in camera e lavare invece i piatti più tardi, tanto non c'è fretta. Le assi in legno delle scale scricchiolano sotto i miei passi, così come quelle del pavimento della mia stanza quando entro. Mi vado a sedere sulla mia "postazione", dove passo la maggior parte del tempo, e che adoro. È una semplice panca sotto al bovindo, rivestita con un piccolo materassino color crema per renderla più confortevole e su cui sono poggiati due cuscini bianchi e una piccola pila di libri. È stata costruita in legno, come quasi tutti i mobili in camera mia, che non è molto grande. È forse la stanza più piccola dopo la cucina, ma è perfetta per me. Credo che non abbia senso avere uno spazio enorme se poi sono sola. L'unica cosa da cambiare è la carta da parati che ricopre le pareti. Infatti, alcune parti sono più grigie di altre, e dietro il letto si è un po' strappata. Sembra graffiata, segno evidente degli anni che possiede questa casa.

Mi allungo verso la scrivania di fianco a me su cui giacciono il mio computer portatile e alcuni libri di scuola, tra cui quello di biologia che è aperto sugli altri, per accendere la piccola lampada nera e non rimanere inglobata nel buio. Il bagliore giallo che emana mostra una sedia da ufficio, che è coperta dalle maglie e dai pantaloni che devo ancora sistemare nell'armadio in legno chiaro, questo tra la finestra e il letto a una piazza e mezza che occupa la maggior parte dello spazio. Dovrei sistemare anche le lenzuola gialle e blu che ho lasciato del tutto disfatte, ma sarebbe inutile visto che tra qualche ora sarò a dormire. E dovrei buttare anche la bottiglia d'acqua, ormai vuota, lasciata stesa ai suoi piedi. Almeno il piccolo comodino accanto è l'unica cosa in ordine in camera mia, con sopra un'altra piccola lampada gialla e il caricatore del mio cellulare. Un altro lampo lacera le nubi così intensamente nel cielo da illuminare maggiormente la camera, riflettendosi addirittura nello specchio rettangolare che è appeso al muro tra la porta della stanza e quella del piccolo bagno privato.

Attiro le gambe al petto per poggiarci la testa mentre osservo la pioggia che sembra non voler smettere di scendere giù. Un altro tuono ruggisce più forte degli altri, sebbene sembri più distante rispetto ai precedenti. Solo un rumore in lontananza sovrasta il suono delle gocce di pioggia che si schiantano sulle tegole del tetto. Nonostante nulla sia ancora apparso sotto casa mia, percepisco che si tratta di una macchina. Non capita che passino spesso per questa strada dal momento che ci sono solo altre quattro case, delle quali una è in vendita. Le altre due sono abitate da persone anziane e non ricevono mai visite, infine c'è la casa abbandonata in fondo alla strada. Lì finisce il quartiere.

Chiudo quindi gli occhi per concentrarmi di più sull'auto che si sta avvicinando. Sono curiosa di sapere chi giri con questo tempo. È quasi sotto casa mia, posso udirla più chiaramente. Quando apro gli occhi, la trovo ferma in strada con i fanali ancora accesi, intenti a catturare le gocce di pioggia. Due figure aprono gli sportelli, ma una volta usciti non riesco a scorgere i loro volti. La prima che esce dalla portiera di destra ha un cappuccio nero in testa, e anche i pantaloni e le scarpe (un paio di Converse) sono del medesimo colore. Qualche secondo dopo, la persona è completamente bagnata, data l'intensità della pioggia. Alcune ciocche di capelli che sembrano essere biondi gli si sono appiccicati sulla fronte. Di certo è un ragazzo. Non riesco però a intravedere il suo viso, oscurato a causa del cappuccio largo. Dalla portiera di sinistra esce invece una donna con una semplice maglietta a maniche corte blu, dei jeans chiari e degli stivaletti in pelle marrone. Apre subito l'ombrello rosso prima di chiudersi la portiera alle spalle e fare il giro della Jeep nera per raggiungere l'altro. Dal momento che non riesco a scoprire i loro volti, chiudo gli occhi per concentrarmi e cercare di capire chi siano, o almeno cosa ci facciano qui, ma li riapro di scatto, spaventata. Non percepisco niente, neanche il loro battito. Nulla, il vuoto totale, come se fossi immersa davvero nell'acqua ma incapace di sentire il suo suono. Il silenzio più assoluto. Forse non sono pazza, magari mi stavo sbagliando per tutto questo tempo.

- Sharon! - Mia madre urla così forte che non mi sarei meravigliata se i vicini l'avessero sentita. L'attimo dopo appare sulla porta. - Ti avevo chiesto di lavare i piatti! -

- Stavo giusto andando. - Incrocio il suo sguardo per un secondo, sorridendole in maniera innocente prima di tornare a guardare fuori alla ricerca della macchina, ma sembra essere sparita.

- Basta che domani mattina non li trovo ancora nel lavello, magari con le mosche che ci volano intorno. - Chiude la porta alle sue spalle. Non so perché m'interessi così tanto, ma ho la sensazione che quella macchina sia qui per un motivo. La cerco un'ultima volta con lo sguardo prima di andare a lavare i piatti, ma niente. La pioggia è l'unica cosa che riempie la strada deserta. E, per un breve istante, quella sensazione che mi ha accompagnato fin da piccola sembra essere sparita, come se avessi trovato quello che stavo cercando.

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