Libro 1: 01) Cacciata dal paradiso

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«Te ne andrai da questa casa anche a costo di esser preso a calci nel culo! Quindi ora prepara le tue robe che il pullman non aspetta mica te.»

Urlò con dolcezza la mia cara madre quando mi esortò a diventare indipendente. Devo dire che avvenne all'improvviso e che ero del tutto impreparato a questa sua reazione.

«Non puoi costringermi ad abbandonare il mio divano e Sky per andare a fare il barbone in un'altra città! Ci sono ancora troppe serie TV che devo finire di vedere.»

Piansi un po' quando mia madre cominciò a mettere nella valigia i miei vestiti. Dopotutto è sempre difficile per un uccellino lasciare il proprio nido e senza nessuna certezza per il futuro. Un ragazzo di diciannove anni, alto un metro e settantotto, con capelli rialzati di color nero pece e con un fisico da finto anoressico, non poteva cambiare la sua vita da un momento all'altro. Per chi se lo chiedesse, il fisico alla finto anoressico è quando sembri magro e pallido, mentre hai un po' di pancetta da cucinare e i fianchi larghi.

«Devi iniziare a crearti un futuro e di sicuro non permetterò che tu marcisca nel salotto a vedere i Simpson. Roma ti aspetta!»

I miei genitori scelsero la capitale per le sue grandi opportunità lavorative e per la variopinta scelta di indirizzi di studio. Desideravano con ansia che diventassi un uomo, e io non avevo la minima intenzione di deluderli.

«Come potete farmi questo, mi buttate in quella città così caotica e davvero pensate che metta la testa apposto e che mi sistemi? E se diventassi un tossico-dipendente?»

Urlai salutando la più cara amica di una vita. Per diciannove anni mi aveva accompagnato e mi aveva insegnato tutto ciò che sapevo: la televisione del salotto. Lei c'era quando abbiamo vinto i mondiali nel 2006. C'era quando hanno trasmesso l'ultima puntata di "Scrubs". E, soprattutto, era con me quando appresi della cancellazione di "Lie to me". Era la mia migliore amica. La mia migliore amica inanimata.

«Tu un tossico? In tutta la tua vita non hai mai fumato e ti fa schifo il sapore della birra. Ho più paura nel sapere che avrai internet per lo streaming, piuttosto delle droghe che qualcuno ti possa offrire.»

Mia madre mi staccò dall'abbraccio con la mia amica e mi fece scendere le scale in fretta e furia. Mio padre ci stava aspettando in macchina, per potermi portare alla fermata degli autobus nel porto mercantile.

«Ma non ho salutato Roberto...», dissi mentre evitavo di cadere per le spinte di mia madre, Anita Alessandro, casalinga e allenatrice di pallavolo.

«Ma se tu odi tuo fratello.»

Era vero. In tanti anni, io e mio fratello minore non c'eravamo mai amati molto. Eravamo sempre in competizione e lui imitava ogni cosa che facevo. Molti miei amici dicevano che cercava di rubarmi l'identità. Io avevo un'idea un po' diversa. Lui non cercava di rubarmi la vita o di imitarmi. Cercava di sostituirmi e di distruggermi. L'amore fraterno...

«Poteva essere un buon momento per risanare i rapporti, non trovi?»

Una volta sceso giù nel garage, mio padre, Gabriele Lupo, prese la valigia e la mise nel portabagagli. Lui era un ginnico della marina militare e allenatore di calcio. Mi chiedete come fosse la vita con due genitori allenatori? Beh... Credo sia meglio non farmi questa domanda. Meglio parlare del tempo.

«Sicuro di aver preso tutto, Leo?»

Il primo che dice che Leonardo è un nome da vecchio prende mazzate. Sfido a trovare qualcuno che nel 21° secolo si chiami ancora così. Eccomi.

«In effetti avrei dimenticato qualcosina...»

Cercai di varcare di nuovo il cancello di casa per poter scappare, ma mia madre fu più veloce e mi afferrò per il collo della maglia.

«Il cervello hai dimenticato! Sali e guai a te se fiati.»

Il viaggio non fu per niente silenzioso. Mia madre continuava a parlare di ciò che avrei dovuto fare non appena sarei arrivato a Roma. A quanto pare un mio prozio mi aspettava tra sei ore a Tiburtina e avrei vissuto con lui finché non avrei trovato un lavoro o finché non mi sarei iscritto all'università.

«Quindi rimarrò con lui a vita...», ironizzai cercando di evitare lo sguardo assassino di mia madre.

Non sapevo nulla di questo "zio Carlo"; a esser sinceri, mia madre mi aveva già parlato di lui ma, ogni volta che parlava di parenti o di persone che non avrei mai visto in vita mia, mi isolavo con la fantasia. Di solito immaginavo di essere in una spiaggia della mia cara Taranto, cullato dalle onde e inebriato dall'aria frizzante del luogo, mentre ascoltavo i Gorillaz dal mio lettore mp3. Quindi, in definitiva, non sapevo nulla di questo zio. Ed era incredibile che mia madre mi lasciasse con un completo estraneo.

«Hai scelto cosa fare?», chiese all'improvviso mio padre, proprio prima di parcheggiare di fronte alla fermata dei pullman.

«In che senso?»

Sapevo cosa intendeva, ma speravo che si rimangiasse quella domanda. Ero un ragazzo abbastanza scansafatiche e pigro. Difficilmente avrei messo la testa a posto e avrei cercato un lavoro. Figuriamoci l'università. Ho bruciato la scuola una volta dato l'esame di Stato. È stato un incidente... Ma i pompieri non hanno impiegato troppo tempo nel "spegnere" la classe 5°B.

«Università o lavoro?»

Mi fissò nel modo più serio possibile e cercò di estrapolare una risposta che non esisteva.

«Ho già un lavoro... Sono uno scrittore.»

Alla mia destra arrivò un pugno sulla nuca da parte di mia madre. Non me l'aspettavo, il colpo a tradimento.

«Peccato che nei compiti di italiano sfioravi a malapena la sufficienza.»

Mia madre era spesso arrabbiata, ma noi eravamo abituati al suo carattere. Diciamo che poteva essere uno dei pochi motivi validi per lasciare casa.

«Ho tanta fantasia, vedrò che inventarmi per sopravvivere.»

Una volta salutati i miei genitori, salii sul pullman diretto a Roma.

«Speriamo bene...», dissi fra me e me, tirando fuori dalla tasca il lettore mp3 e mettendo una canzone di Caparezza. Il tempo passò in fretta, per mia fortuna, e non sentii quasi per nulla le sei ore di viaggio.

«Ora sono libero, che strana sensazione. Beh, se la mia vita comincia da qui, spero almeno che mi dia un futuro pieno di feste, donne e di serie TV!»

Una volta sceso dal pullman, sentii un brivido percorrere la mia delicata spina dorsale. Dinanzi al pullman c'era un signore alto, grosso e con i capelli bianchi che aveva un cartello con su scritto "Leonardo Lupo". Era vestito di nero e al collo portava un collarino bianco.

«Mio zio Carlo è un prete...», dissi sconvolto e con tristezza, mentre il mio pensiero cercava una rapida via di fuga che potesse riportarmi nella mia cara e tranquilla Taranto.

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