Golpe

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La rivolta frange l’essere e l’aiuta a traboccare. Libera dei flutti i quali, da stagnanti come erano, divengono furiosi.》
[Albert Camus]

Tic, tic, tic. Un suono ipnotico, ripetitivo, ecceggiava nella mentre della mora, come in un cassa armonica. Tic, tic, tic. Tante giocce d'acqua si schiantavano al pavimento gelido, una dopo l'altra, sempre con lo stesso ritmo. Tic, tic, tic, plink. Plink non era previsto. Plink non era acqua.

"Merda..." mormorò la ragazza, portandosi una mano al naso.

Le sue dita si tinsero di carminio, lo stesso rosso che aveva macchiato il suolo pochi attimi prima. Era chiusa in quella maledetta cella da 57 ore, e ancora non le era stata concessa nemmeno una chiamata. Non si trovava in una prigione vera e propria, solo una struttura di detenzione municipale all'interno della stazione della polizia, che forse dato ciò aveva fatto era anche peggio. È vero, non si sarebbe effettitato un processo, non sarebbe finita in tribunale, sarebbe bastato che un soggetto esterno pagasse la sua cauzione, per uscire, ma nessuno aveva la minima idea di dove la mora si trovasse, e questo complicava un po' le cose.

"Fatemi chiamare qualcuno, cazzo! È un mio diritto!" Gridò, scuotendo le sbarre della cella con tutta la forza che le rimaneva in corpo. "È un mio diritto!"

La sua voce risuonò nella stanza vuota, senza ricevere alcuna risposta. Era giusto che si trovasse lì, lo recitava la legge. Aveva tentato un colpo di stato, si era improvvisata attivista contro Jensen e i suoi seguaci, ma qualcosa era andato storto, e la situazione le era sfuggita di mano. Tre uomini spalancarono le porta d'ingresso della stazione di polizia. I primi due erano vestiti completamente di nero, con gli occhiali scuri e un'espressione impassibile. Il terzo, invece, indossava un completo elegante, e un sorriso compiaciuto regnava sul suo volto.

"Ti trovo in splendida forma, cara." Commentò l'uomo in giacca cravatta aprendo leggermente la porta della cella, per poi appogiare al suolo un piatto con del riso in bianco.

"Non mangerò come un animale in gabbia."

"Mi hanno riferito che lo hai detto altre tre volte..."

"Allora forse è il caso di rassegnarsi, perché se lo ficchi bene in quella cazzo di testa, Jensen, lo ripeterò altre dieci, cento, mille volte fino a quando sarò chiusa in questa fottutissima cella!" Sputò la mora a denti stretti.

"Hai quello sguardo. Lo stesso sguardo da felino che aveva tua madre."

Liria colpì le sbarre della cella con il lato della mano, serrata in un pugno tanto stretto da costringere la mora a piantarsi le unghie nei palmi. Aveva gli occhi iniettati di sangue, una coltre di rabbia rendeva più affilate le fattezze del suo volto. A tutti i presenti fu chiaro che, se fosse stata libera, la Anderson difficilmente avrebbe permesso al sindaco di scorgere la luce del sole un'altra volta. L'uomo, come per crogiolarsi in quell'odio che gli graffiava la pelle e che tanto gli era caro, ghignò beffardo.

"Mi ascolti bene, brutto figlio di puttana, provi a dire un'altra parola su mia madre, e giuro sulla mia stessa vita che..."

Sentì la fredda canna di una pistola appoggiarsi alla sua tempia sinistra, tra una sbarra e l'altra. Deglutì rumorosamente e le sue pupille si dilatarono di paura mentre un brivido freddo la percorreva dalla testa ai piedi, ma fece di tutto per nascondere il suo sgomento, conservando un'espressione di ghiaccio. Uno degli uomini vestiti di nero abbassò l'arma lentamente. Jensen si avvicinò alla cella e le sollevò il mento con due dita.

"Hai la determinazione di tua madre, ma il grilletto facile di tuo padre... Com'è che si dice? L'imbastardimento della razza fortifica la specie..." La ragazza si scansò bruscamente. "Sai quanti danni ha causato la tua stupida rivolta popolare? Sai quanto caos ha provocato?"

Rebel [Jughead Jones]Where stories live. Discover now