Rischio e pericolo

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Le mie notti sarebbero un incubo al solo, terribile pensiero di un innocente che sconta, tra i tormenti crudelissimi, una colpa che non ha commesso.
[Emile Zola]

La festa proseguì, tra striscioni, coriandoli, palloncini e birra rovesciata sul pavimento. Nessuno sembrava aver fatto caso alla conversazione tra Liria e Veronica, e, soprattutto nessuno sembrava essersi accorto che la Anderson se ne fosse andata. O, almeno, così si augurava lei.

La mora era in camera sua, seduta a gambe incrociate sul letto, gli occhi fissi sulla moquette bianca, e la testa da tutt'altra parte. Il rimorso la stava distruggendo, e sentiva un grosso vuoto nello stomaco, come un buco nero in grado di risucchiare tutte le sue emozioni. Quel dannato senso di indifferenza, ormai, era da tempo una costante nelle sue giornate, eppure ancora la mora si rifiutava di accettare quell'apatia, di lasciarsi sopraffare passivamente da essa.

Si alzò dal letto e camminò in direzione della scrivania, intenta a prendere il suo quaderno dallo zaino. Scrivere era l'unica cosa che le veniva bene in situazioni simili, quando non riusciva a comprendere i suoi stessi sentimenti, e, soprattutto, non ea in grado di sentire i suoi pensieri per l'esagerato rumore. Nel Bronx, ciò accadeva per il via vai continuo di macchine e motociclette dal motore truccato, ma la festa che si stava svolgendo in quel preciso momento al piano di sotto era una circostanza nettamente peggiore.

Liria tornò a sedersi sul suo giaciglio, questa volta con la schiena appoggiata alla testiera e le ginocchia a farle da appoggio per scrivere.

«Non ho mai cercato compatimento. Non ho mai chiesto pietà. A forza di porte chiuse, ho imparato a passare dalle finestre. Dopo tanti ostacoli troppo alti da saltare, ho capito che, per superarli, è necessario passarci sotto. Con tutti i mattoni che mi sono stati lanciati, ho costruito un muro. Ora niente può sfiorarmi. Niente può scalfirmi. La mia è una muraglia di vetro: basterebbe un colpo ben piazzato, e questa cadrebbe in mille pezzi. Solo che nessuno prova a romperla. La gente ha troppa paura di farsi male, di tagliarsi. E la muraglia resta intatta. So di essere un caso perso, lo so: ho scelto io di esserlo. Perché era l'unico modo di far sentire la mia voce. Perché l'unica alternativa possibile era perire, essere schiacciata. Solo ora mi rendo conto di quanto la mia decisione sia stata stupida. Di quanto io abbia perso. Solo ora ho la forza di ammetterlo. Eppure, se potessi tornare indietro, probabilmente farei lo stesso sbaglio, lo stesso passo falso. Sono un'errante recidiva. Un caso perso, per l'appunto. Non imparo dalle mie inesattezze. Non ho mai compreso l'arte del tenersi strette la persone, ad esempio. L'ho sempre ignorata, e continuo a farlo. Continuerò a farlo per sempre, credo. Ma che ci posso fare? L'ho detto, sono senza speranze.»

Stava rileggendo le parole appena scritte, quando vide la porta aprirsi di colpo. Gettò il suo quaderno a terra con un gesto repentino della mano.

"Non si osa bussare?"

"Non mi avresti sentito." Affermò Jughead. "Nel caso non lo avessi notato, al piano di sotto c'è una festa."

"Appunto, che diavolo ci fai qui?" Domandò acida la mora.

"Ti sembro il tipo di persona che ama il caos e il contatto con le persone?"

"Non mi pare che qualcuno ti abbia costretto a partecipare, Jones, quindi ribadisco la domanda: che diavolo ci fai qui?"

Jughead socchiuse la porta bianca ruotando gli occhi, per poi avvicinarsi cautamente alla Anderson. Arrivato ad un paio di metri dal letto, lo indicò piuttosto titubante, e un "posso?" gli morì in gola.

"Non ci pensare nemmeno." Lo precedette Liria, e il corvino si accontentò di sedersi sulla sedia della scrivania.

"Siamo piuttosto ostili, oggi..." Mormorò.

Rebel [Jughead Jones]Where stories live. Discover now