37. Wild-goose chase

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Sarebbe bastato chiedere al vecchio Donato di traghettarlo dall'altra parte, dalla finestra del salone di Duccio riusciva, quando il tempo era clemente e la nebbia rada, a vedere perfettamente palazzo Foscari

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Sarebbe bastato chiedere al vecchio Donato di traghettarlo dall'altra parte, dalla finestra del salone di Duccio riusciva, quando il tempo era clemente e la nebbia rada, a vedere perfettamente palazzo Foscari. Spesso negli ultimi giorni, di notte, aveva immaginato che la piccola fiammella che riluceva nell'oscurità della stanza al secondo piano fosse opera di Arianna. Ogni tanto si era cullato nell'idea assolutamente infantile che lei sapesse che lui vi avrebbe tratto conforto. La maggior parte delle volte però, come la notte appena trascorsa, aveva guardato infastidito quel lume innocente maledicendolo perché aveva preso l'abitudine di cercarlo, di affacciarsi apposta e perché di fatto sembrava avesse il potere di indispettirlo quando non brillava nell'oscurità.

Adesso però era mattina, l'aria gelida gli sferzava il viso e non aveva assolutamente voglia di cullarsi nelle idee romantiche che lo avevano condannato a quella specie di inferno. Aveva deciso di camminare, di schiarirsi le idee. Si era ripromesso che avrebbe smesso di proteggerla e avrebbe iniziato a ignorarla, o ancora meglio, a torturarla come lei faceva con lui. Non gli rivolgeva la parola come se fosse colpevole di qualcosa. Il fatto che fosse andato a letto con Giada Foscari non era affar suo. Proprio come il fatto che non fosse andato a letto con Marta Vivanti e anzi l'avesse in malo modo scacciata quando si era presentata nelle sue stanze.

Ogni volta che ci ripensava un livore fastidioso si faceva largo nel suo petto. Sul ponte di Rialto si appoggiò alla balaustra di pietra d'Istria, osservò l'acqua del Canale, stranamente limpida quella mattina a quell'ora.

Lo disgustava il fango sozzo che s'intravedeva sul fondo, il marrone che se ne stava nascosto là sotto, sembrava fare a pugni con la candida pietra che accarezzava con le mani.
Le sue dita erano perfette, erano mani che avevano lavorato troppo poco, che non avevano mai fatto abbastanza. Il ricordo della risata di Isabella gli fece chiudere gli occhi.

"Non sei nato per lavorare tu."

"Lascia che ti aiuti."

Le aveva detto quando Isabella aveva sollevato una cesta di panni sporchi da portare al fontanile.

E di nuovo la sua risata cristallina lo aveva fatto sorridere, poi aveva guardato le mani di Isabella con infinita tristezza. Erano arrossate, screpolate. La sua Isabella era nata per soffrire.

Di solito bloccava sul nascere quegli echi dal passato, ma quella mattina non lo fece, almeno finché non ripensò al candido corpicino bianco avvolto dalle coperte. Iniziò a respirare più affannosamente, si staccò dalla balaustra e attraversò cale de mezo con una smania che rendeva goffa la sua figura di solito tanto elegante, in calle del campanile per poco non travolse una bambinetta vestita di stracci che giocava a campana.

Venezia era sempre la stessa, il vociare scanzonato, il rumore dell'acqua, la sua luce particolare, biancastra, che in quella stagione dell'anno ammantava gli edifici, le rughe, le calli e i campi con un leggero ma inconfondibile velo onirico.

IL PRECETTOREWhere stories live. Discover now