28. I quattro Stregoni di Arcanta

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«Adesso però togliti quell'espressione dalla faccia» disse Solomon

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«Adesso però togliti quell'espressione dalla faccia» disse Solomon. «Sembra che tu non abbia mai visto niente del genere prima d'ora.»

Ma infatti Jim non aveva mai visto una città così, e ne aveva girate parecchie in vita sua: l'unico aggettivo che gli veniva in mente per descrivere Arcanta era senza tempo.

Gli edifici erano antichi, sì, ma di un antico che non aveva coordinate specifiche, né temporali né geografiche. Sembravano partoriti dalla mente di un artista visionario, che aveva cercato di dare forma a un sogno scolpito nel marmo bianco e nell'oro; obelischi, colonne, tetti a forma di pagoda e cupole che luccicavano come pepite al sole.

La città sorgeva in un luogo suggestivo, incastonata in una profonda valle attraversata da un fiume; era fiancheggiata su due lati da alte pareti di roccia che scendevano a precipizio, irrigate da cascate e con le sommità ricoperte da fitti boschi. In fondo alla valle, si stagliavano alti picchi innevati che identificò come le Alpi, ma Jim non aveva freddo; era come se l'aria non avesse una temperatura precisa, ma era piacevolmente mite, pulita e impregnata del profumo di resina e aghi di pino.

Mentre era ancora preso da quel paesaggio da fiaba, Solomon estrasse l'orologio. «Non perdiamo tempo, la Prova dell'Oro comincerà fra poco. Vieni, prenderemo il primo velodrago disponibile per la Cittadella, non possiamo usare il salto fin là.»

Dopodiché, lo guidò giù per una scala di pietra su cui si riversavano fiotti di bouganville; il parco in cui il Meridiano li aveva trasportati sembrava a sua volta una città distribuita su vari terrazzamenti, ognuno dei quali conteneva un micro-ecosistema di piante, insetti e uccelli.

Mentre percorrevano un viale ombreggiato da palme, dei buffi pennuti simili a piccioni obesi attraversarono loro la strada starnazzando come oche. Incuriosito, Jim ne avvicinò uno, che però quasi gli staccò un dito col becco affilato.

«Non importunare i dodo» lo riprese Solomon, senza fermarsi. «Se dai loro confidenza poi non te li togli più di torno.»

Superarono i cancelli d'oro dell'Arboreto, maestosi come quelli di un palazzo imperiale, e si ritrovarono in una sorta di stazione ferroviaria ma senza rotaie, dove si era riunito un gruppo eterogeneo di persone, maghi e streghe indiani, caucasici, arabi, africani e asiatici. Vestivano abiti sgargianti ed erano tutti incredibilmente belli, ma le loro facce avevano qualcosa di strano: le iridi avevano colori eccessivamente brillanti, la pelle era priva di imperfezioni, i capelli tinti di assurde tonalità come se indossassero parrucche.

Sembrava che fossero in attesa di qualcosa e quando Jim domandò al maestro cosa stessero aspettando, un suono stridente riverberò nell'aria e subito dopo un'ombra oscurò il sole.

Jim alzò la testa e non riuscì a trattenere un'esclamazione di sorpresa, quando una creatura color bronzo planò verso la banchina; aveva una forma sinuosa, come quella di un serpente d'acqua, con ali sottili e il dorso irto di aculei. Non era più grande di una locomotiva, ma Jim ne fu così impressionato che rimase congelato sul posto con gli occhi sgranati.

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