1. Mura bianche - Part 1

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Quando sono andato a scuola, mi hanno chiesto cosa volessi diventare da grande. Ho risposto "felice". Mi dissero che non avevo capito l'esercizio e io risposi che loro non avevano capito la vita. - John Lennon

Christian

Febbraio 2019

Ogni giorno sono sempre qui, seduto nel mio studio con il compito di fare un resoconto della mia giornata lavorativa. Diagnosi da definire, carte da analizzare e cure terapeutiche da prescrivere.

Mi chiamo Christian Owen, ho trent'anni e rivesto il ruolo di medico chirurgo presso l'ospedale Jefferson del Nord Carolina.

Tutti affermano che sono una persona solare, disponibile e per certi versi anche noiosa, come direbbe il mio amico James.

Penserete che sia affascinante il mio lavoro, tra bisturi, sale operatorie e belle infermiere ma credetemi, è tutto tranne che questo.

Vivo una vita molto frenetica ma non mi spaventa, capita spesso di essere chiamati nel cuore della notte quando la situazione clinica di un paziente è molto grave e allora decido di rimanere a dormire in una brandina direttamente in sede.

Ho scelto questa strada a causa del 10 maggio 1999 perché ho sempre pensato che per avere la capacità di aiutare gli altri, bisogna essere preparati professionalmente e possedere la prontezza nell'agire, ma al momento non voglio parlare di quel pomeriggio.

Se mai troverò il coraggio, lo racconterò. Il mio studio è abbastanza decorato per essere quello di un ormai "anziano trentenne", James mi definirebbe tale.

Mi trovo al quinto piano con una bella vista sulla città, le pareti sono di color bianco panna, ho una libreria piena di volumi con tantissime informazioni su varie patologie che ogni tanto sfoglio, quando i dubbi mi assalgono per poter risolvere un caso complesso e infine una cornice con una foto che custodisco con cura.

Il suo sorriso, quegli occhi e quell'anima mi ricordano il motivo per cui io sia qui in questo momento. Sono diventato responsabile del mio reparto circa un anno fa a seguito di un caso di mala sanità in cui molti medici sono stati licenziati o posti sotto inchiesta.

Il mio è un compito importante e sento costantemente sulle spalle una forte pressione, infatti ci sono giornate in cui ricopro turni anche di diciotto ore consecutive. Non ha importanza, amo curare i miei pazienti, seguirli nel loro percorso di ripresa fisico e per certi versi psicologico.

Dopo ogni intervento la vera difficoltà è la riabilitazione. Per alcuni non è facile affrontarla soprattutto se si è sottoposti a un'operazione molto invasiva. Ed ecco che il mio contributo diventa indispensabile.

Impostare il giusto piano comporta una guarigione più veloce ma anche una vera e propria salute mentale. Cerco sempre di creare nuovi metodi cognitivi e comportamentali, oltre che alla corretta ricerca dei giusti farmaci da sottoscrivere.

Ogni persona che salvo è una piccola vittoria, gioisco se vedo correre un figlio tra le braccia di una madre appena dimessa o di un padre che dopo un incidente stradale sia capace di non perdere l'uso delle proprie gambe.

È vero che non sono l'unico ad agire, ho dei meravigliosi colleghi che con professionalità e dedizione collaborano all'unisono. Tutti hanno un ruolo fondamentale e il solo lavoro di squadra può portare a un risultato soddisfacente.

Ci sono giorni in cui fallisco, non sono un robot ma un essere umano ed è lì che so di non aver fatto abbastanza. Non mi reputo mai all'altezza nonostante abbia avuto molte soddisfazioni, resto sempre con i piedi per terra perché quando meno me l'aspetto compare l'angoscia più grande, quella in cui sono costretto a dare la notizia di un decesso.

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