Capitolo 11

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Arriviamo davanti all'ufficio con cinque minuti d'anticipo, il tempo sufficiente per sistemare le borse compromettenti dello shopping in qualche cassetto e immergersi in qualche importante, improrogabile lavoro prima che il capo faccia il suo ingresso.

Sto ancora faticando ad abituarmi al rituale operato da Carini ogni mattina quando arriva in ufficio e ogni pomeriggio, quando rientra dalla pausa pranzo. Entra con incedere nervoso e impetuoso, appende la giacca all'ingresso con uno svolazzo di maniche e si volta con uno scatto. Scruta con occhi di fuoco l'intero ufficio, in cerca di un qualunque elemento che gli consenta di riprendere aspramente i suoi dipendenti: uno schermo acceso che mostra una pagina internet che nulla ha a che fare con l'arredamento d'interni, un giornale aperto, un telefonino che annuncia una chiamata personale.

Una volta, raccontava Laura, che lavora per lui da anni, Carini arrivò a minacciare di licenziamento una dipendente che aveva mangiato un pacchetto di cracker in ufficio. Sosteneva che se in quel momento fosse entrato un cliente il suo atteggiamento poco professionale avrebbe danneggiato l'immagine dell'azienda. La possibilità era remota, perché di clienti, alla Marnica Design, ne entrano pochi: le idee e i progetti che vengono proposti sono banali e poco innovativi. Un giorno sentii Carini stesso lamentarsi del fatto che ultimamente le case siano sempre più piccole e i clienti pretendano che lui (beh, in realtà l'azienda, ma credo che nella sua mente siano due entità indistinguibili) riesca a comprimere in qualche decina di metri quadrati ogni pezzo d'arredamento, dal forno alla lavatrice al divano al televisore al plasma. In quell'occasione lasciai cadere il fatto che avevo seguito un corso a scuola sull'ottimizzazione degli spazi, sperando che mi venisse affidato un lavoro più interessante della stampa degli opuscoli informativi. Ma Carini mi squadrò con le sopracciglia aggrottate, quasi sorpreso di vedermi lì alla scrivania, facendomi dubitare che si ricordasse di avermi assunto, e mi disse di andare al bar di fronte a ordinare quattro caffè. È inutile dire che non mi considera abbastanza nemmeno per poter bere un caffè con lui e le altre colleghe.

Mentre Laura cerca la chiave dell'ufficio, osservo le crepe dell'intonaco che si diramano intorno ai cardini della porta. D'un tratto mi sento chiamare. Alzo gli occhi, e vedo mia madre rigida di fronte alla porta della Marnica Design.

«Noi entriamo, Amelia» Laura mi lancia uno sguardo di ammonimento. «Non fare tardi.» Altrimenti rischio grosso, termino la frase che lei lascia in sospeso.

Lo so, ma non posso ancora scappare in metropolitana e fuggire. Devo affrontare mia madre, anche se questo non è il posto né il momento più opportuno.

Mia madre si avvicina. I capelli crespi identici ai miei sono sciolti sulle spalle, ammanettati in una ferrea permanente, l'improbabile camicia a pois rossi è più appariscente di quanto ricordassi, la vecchia gonna marrone sospira al soffio di un impalpabile venticello. Scorgo gli occhi di mia madre, scuri come quelli di Teo, ma molto più stanchi, al punto che hanno assunto una lugubre sfumatura giallognola.

«Amelia, torna a casa. Subito.»

La sua voce imperiosa cancella ogni traccia di perdono che ero disposta a concedere, mossa a pietà dal suo aspetto tirato e sconvolto.

«Devo lavorare.» Indico con un cenno la porta di vetro smerigliato oltre la quale dovrei essere tra meno di cinque minuti.

«Lascia perdere il lavoro. Vieni con me.»

«No.» La mia risposta secca deve colpirla, perché vacilla per un momento, poi mi afferra il braccio con rabbia. «Subito!»

Nella sua voce traspare una minaccia che mi sorprende. Cerco di mantenere la calma, ma mia madre sembra impazzita.

«Tu tornerai a casa con me, non andrai in giro a fare la sciocchina!»

"Sciocchina", per mia madre, equivale a puttana.

Luna CrescenteWhere stories live. Discover now