Capitolo 9

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Non ce l'ho fatta. Non ho abortito. Quando l'infermiera mi ha domandato che cosa volessi, qualcosa dentro di me ha gridato, e lì, nel mezzo di quel corridoio triste illuminato a stento da neon usurati, la mia certezza si è dissolta, la mia decisione è svanita.

La verità è che voglio questo bambino. Anche se sono sola.

Questa consapevolezza è tanto forte che mi toglie il fiato. Ho lasciato l'ospedale con una tranquillità raggelante, sono salita sulla metropolitana, sto andando al lavoro. Come se nulla fosse accaduto, come se nulla fosse cambiato.

Ma io sono cambiata. In un attimo che è durato meno di un battito di ciglia, sotto gli occhi di un'infermiera perplessa e stupita.

Se mi venisse chiesto il motivo per cui è accaduto, non saprei spiegarlo con chiarezza. È stato come risvegliarsi in una luce accecante, che obliava le ombre e i dubbi: la consapevolezza che dentro di me sta crescendo un'altra vita, e questo pensiero, che fino ad allora mi aveva terrorizzata e quasi disgustata, d'improvviso si è tramutata nella mia ragione di vita. La più dolce, bella e terribile tra tutte quelle possibili.

Non so come potrò farcela, ma spero di farcela. Voglio farcela. Devo.

Davanti all'azienda dove lavoro da due mesi, incontro Laura, la mia collega più anziana. Mi saluta cordialmente, ricambio con un sorriso. La nostra conversazione quotidiana inizia in questo modo e termina, oggi però Laura mi scruta per un momento sotto la luce già calda del mattino e io indugio, imbarazzata, sulla soglia dell'ufficio.

«Ti trovo molto bella, stamattina» mi dice al termine dell'esame.

Il complimento mi fa arrossire. «Saranno i vestiti nuovi» sdrammatizzo. Laura getta una rapida occhiata alla gonna di Armani, mi chiede dove l'ho presa e quando incrocio di nuovo il suo sguardo ho la vaga impressione che per qualche motivo inspiegabile la sua opinione su di me stia cominciando a cambiare.

La giornata trascorre più facilmente di quello che avevo previsto. Rispondo con allegria alle telefonate, porto il caffè delle dieci con un sorriso e riesco perfino a trovare divertente una battuta del capo quando mi affibbia una pila di buste a cui si aspetta che io metta i francobolli e corra a imbucarle.

Come reagirà quando gli dirò del bambino? E ridacchio tra me e me, incurante. Perché non mi importa più nulla di ciò che penseranno e diranno gli altri. Questa volta ho preso la decisione giusta.

Quando rientro a casa di Teo, scopro che mio fratello è già tornato. È seduto sul divano a studiare il giornale, appena mi vede salta in piedi e mi corre incontro.

«Ciao Ame.» Mi guarda dritto negli occhi, cercando di capire se preferisco parlare oppure no. Mi commuovo di fronte al suo interesse, e rifletto che questo bimbo ha già compiuto un miracolo: mostrarmi lati di mio fratello di cui ero completamente all'oscuro.

Evidentemente Teo decide che il silenzio è il conforto migliore, perché si affretta a andare in cucina e preparare da bere per entrambi. La sua preoccupazione però non mi sfugge: credo che non sia mai rincasato tanto presto negli ultimi dieci anni, almeno non per aspettare me.

«Sono passato da casa a prendere quanto mi avevi detto. Troverai tutto nella borsa vicino al divano» grida dalla cucina, armeggiando con il tritaghiaccio. Mi domando cosa mai sta preparando, sono sul punto di dirgli che ho cambiato idea quando vedo la borsa da palestra che usavo per andare a danza. Da una taschina laterale spunta il mio cellulare.

Mi avrà chiamato? Beh, se anche l'ha fatto non mi interessa. Davvero.

Forse solo un po'.

Prendo il telefono con un tremito alle mani e lo apro, speranzosa. Lo schermo nero mi confonde. Non ricordavo di averlo spento. Premo il tasto dell'accensione. Per un momento lampeggia l'usuale logo blu, onde luminescenti serpeggiano intorno al numero che dà il nome alla compagnia e... il telefono si spegne di nuovo. Dannazione, la batteria. Da quanto è scarica?

Luna CrescenteWhere stories live. Discover now