Capitolo 1

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«Ascolti. Questo è il cuore.»

Non potrò mai più dimenticare quel suono. Ritmico, ripetitivo, un tamburo primordiale di pochi millimetri che riecheggia nella saletta ginecologica come a dire "Sono qui, sono qui, sono qui, sono..."

È mio figlio. Quel fagiolino nero e grigio che vibra sullo schermo, che cresce nella mia pancia.

E come d'incanto davanti a quella magia tutto il resto del mondo scompare, le domande smettono di affollarsi nella mia mente. Come potrei dirlo ai miei? Al lavoro? Avrò ancora un lavoro dopo? Dove abiteremo? Toio cosa dirà? Tutti gli interrogativi si dissolvono, resta solo lui. Fagiolino.

«Direi che è a nove settimane. Visto che ha un ciclo irregolare non possiamo stabilirlo con esattezza, comunque la data prevista del parto dovrebbe essere il tre marzo.»

Tre marzo.

Neppure un anno.

«Se non vuole portare a termine la gravidanza, come mi è parso di capire, parli con l'infermiera al banco d'accettazione. È un'operazione piuttosto semplice, si fa in day hospital. Ha ancora tre settimane, però.»

A malapena riesco a ringraziare la dottoressa, ma preferisco non guardarla negli occhi: il suo sguardo di pietà e compatimento mi ferisce. Mi rialzo un po' tremante dal lettino e mi rivesto. Prima le mutande, poi i pantaloni, non il contrario. Le mie mani incespicano. Intanto lei si siede al tavolino e comincia a scrivere al computer, mi chiede di nuovo i miei dati, nome, cognome, numero di tessera sanitaria. Rispondo come un automa. Metto la borsa a tracolla.

«Nel caso cambiasse idea...»

Intende se deciderò di non abortire. Le consento appena di continuare.

«Prenda questi integratori di acido folico, una pastiglia al giorno, e torni a farsi visitare il venti del mese prossimo alle dodici meno un quarto.» Mi tende una serie di fogli scarabocchiati.

Non li guardo nemmeno: li infilo in borsa, saluto, ringrazio ed esco. Quella stanza buia dalle tende tirate mi toglie il fiato. Fuori, al banco dell'accettazione, non c'è nessuno. L'infermiera è sparita. Pausa? Chiamata urgente? Decido di aspettare e mi guardo intorno. Ci sono ancora le donne che sedevano con me sulle scomode seggiole di plastica lungo il muro grigio, in attesa del loro turno di essere visitate. Alcune sono accompagnate dai loro compagni, ridono e scherzano; altre sono sole e sorridono; altre ancora accarezzano il bimbo nella pancia, che ormai spunta inconfondibile dalle camicie estive e dalle magliette stile impero. La moda, una volta tanto, è stata clemente con le donne incinte.

Incinta.

Sono incinta.

«Scusi.»

Mi volto. Un uomo in camicia a maniche corte sta parlando con l'infermiera che aspetto, appena uscita da una porta grigia dall'altra parte del corridoio. È accompagnato da una donna. Avrà trent'anni, è in tuta da ginnastica, spettinata, le stringhe delle scarpe non sono allacciate. Ha gli occhi rossi e gonfi. Da quanto sta piangendo?

«Dovremmo, ecco, siamo qui per... un'interruzione di gravidanza.»

Eccola lì, la frase che sembra non si dovrebbe mai pronunciare in un reparto maternità. Le altre donne in attesa alzano lo sguardo verso la coppia, incuriosite, intristite e anche un po' impaurite. L'infermiera raddrizza le spalle, aggiusta meccanicamente gli occhiali sul naso, il sorriso scompare in una linea austera.

«Si deve aspettare l'anestesista. Oggi non c'è.»

Lei singhiozza, lo sguardo inchiodato sul pavimento a macchie. Lui aspetta, rigido.

«Dovete tornare lunedì, alle sette. Ma qui non siamo molto propensi alle interruzioni di gravidanza.»

Lui prende lei per mano e la porta via, mentre lei sente gli occhi crudeli dell'intero mondo accusatori su di sé.

Vorrei gridarle: cosa ne sa il mondo? Non ti conosce! Solo tu puoi sapere cosa è meglio per il tuo bimbo nella vostra situazione, se la vita oppure no! Nessuno può giudicarti, nemmeno il tuo compagno, perché nessuno può capire il dolore che tieni nel cuore, che ti porterai dietro per sempre, per tutti gli anni che ti saranno concessi!

«Ehi.»

Mi volto di nuovo. Una seconda coppia ha fermato l'infermiera che stava tornando al banco d'accettazione. Avranno diciotto anni? Lui porta jeans dal cavallo bassissimo da cui spunta l'elastico delle mutande che dichiara orgogliosamente D&G al mondo intero, un paio di occhiali da sole così grandi che c'è da chiedersi se riesca a vedere qualcosa sotto la luce di questi lugubri neon. Lei ha una borsetta glitterata che fa oscillare avanti e indietro, una minigonna oscena sopra un paio di pantaloni attillatissimi, due occhi neri di eye-liner che si guardano intorno noncuranti.

«Dove si fanno gli aborti?»

L'infermiera sembra essere stata schiaffeggiata.

«Lunedì alle sette.»

«Ah, ok. Dobbiamo venire qui?»

«Sì. Ma non li facciamo volentieri» tenta l'infermiera, di nuovo padrona di sé.

«Ah, vabbè» dice lei con un'alzata di spalle. «Lunedì. Che palle, dovrò alzarmi presto» e lei e il suo D&G se ne vanno.

Alzo i tacchi e me ne vado anch'io, nauseata. Comunque ho capito, lunedì alle sette. E ci sarà la coda.

Incinta.

Sono incinta.

Il ritornello si ripete ossessivo nella mia mente mentre mi dirigo verso le scale. Un anziano signore in pigiama si ferma e si fa di lato, lasciandomi passare. Sorrido appena di rimando. L'aria condizionata mi fa rabbrividire.

Le nere scale mobili cigolano e gracchiano verso il basso, la cinghia della borsa stride contro la paratia.

Certo che l'aborto è l'unica soluzione. Ho ventidue anni. Ho ancora tutta la mia vita davanti. Voglio viaggiare. E ho appena trovato un lavoro, non ho nemmeno un soldo da parte. Se dicessi che aspetto un bimbo non potrebbero licenziarmi (lo so perché ho già letto la legge cinquantatré), ma non mi rinnoverebbero il contratto: quando una settimana fa ho chiesto che oggi avessi un giorno di ferie Marcello Carini, il mio capo, ha firmato il permesso borbottando:

"Due mesi che lavori qui e già ti prendi il venerdì e fai il week end lungo?"

Tra sei mesi sarò senza lavoro, senza soldi, senza una casa, con un pancione che intimidirebbe qualunque datore di lavoro.

Attraverso l'ingresso dell'ospedale guardando solo davanti a me, verso le porte scorrevoli. Fuori, il caldo sole inclemente di luglio mi acceca, mentre l'ultimo abbraccio dell'aria condizionata mi lascia e l'afa umida mi colpisce dritta in faccia.

Devo sedermi.

Perderò l'autobus, ma devo sedermi. Ecco, sul muretto. Scomodo e coperto di ghiaia. Mi accascio come un sacco vuoto.

Come temevo, sono incinta. Il ciclo era talmente in ritardo che già da qualche tempo avevo smesso di sperare in un miracolo. Da tempo non è regolare, ma non ho mai avuto queste nausee che stritolano la bocca dello stomaco e mi fanno fuggire perfino dal cappuccino, non ho mai avuto così tanto sonno e non sono mai andata in bagno così tanto.

Dannazione. Ho bisogno di un bagno.

Raccolgo la borsa e entro di nuovo in ospedale, raggiungo la toilette e lì mi fermo. Davanti alla creatività graffitara e a quanto di peggio l'essere umano può secernere dal proprio corpo, indietreggio. Inconsciamente porto una mano sul ventre e penso:

"Non temere, ce ne andiamo subito."

Perché gli parlo? Trapochi giorni non sarà più con me.

Luna CrescenteWhere stories live. Discover now