3.) I ricordi riaffiorano (no niente titolo sarcastico sta volta)

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Percorsi il corridoio con fare sbrigativo a grandi falcate. Ancora ricordavo quelle parole "se è questa la visione che hai dell'amore non hai mai amato davvero".
Che fosse vero?
Arrivai in un'ampio corridoio con delle colonne in marmo bianco, e le pareti tappezzate da foto di ex studenti incorniciate al di sopra di targhe che elogiavano i loro meriti. "Vincitore della ventisettesima edizione delle Olimpiadi matematiche" recitava la targa affissa sotto la foto di uno studente con i capelli ricci, il volto ricoperto di macchie rossastre e un ingombrante apparecchio per i denti. Che cliché.

Passai in rassegna tutte le foto, finché una catturò la mia attenzione. Era nuova, fresca di affissione, la cornice splendeva, e la scritta sulla targa recitava solo la scritta "in memoria di". Nessun merito da vantare, nessun ricordo da raccontare, soltanto un'usanza per scrupolo morale. Vedere il volto sorridente di Jace fissarmi negli occhi, anche se da un foglio di carta, fece riaffiorare tanti ricordi dolorosi, uno dopo l'altro, come un turbine.
Ad un tratto  sentii una fitta lancinante alla testa, e mi resi conto di non riuscire a respirare a dovere.

-Josephine svegliati! Andiamo Josephine sbrigati!-. Le grida di mia madre interruppero il mio sogno. Sbarrai gli occhi e vidi la sua espressione trasudare terrore. Il cuore iniziò a martellarmi nel petto. Gli occhi sempre sereni, pacati di mia madre ora erano persi nel vuoto, folli. Tirò via le coperte e improvvisamente un freddo pungente invase il mio esile corpo intorpidito. Rabbrividii.
-Che succede?- domandai con la voce impastata dal sonno.
-Sta arrivando.- Fu la risposta secca di mia madre.

Vidi la colonna bianca dinanzi a me curvarsi in un'angolatura del tutto surreale. Il soffitto immacolato prese a girare e le gambe vennero scosse da un tremolio. Un'altra fitta alla testa mi fece urlare di dolore.

-Josephine tieni stretto Alexander e non lasciarlo mai capito? Qualsiasi cosa accada tu proteggilo.- Ripetè mia madre per la terza volta porgendomi il bambino. Io guardai il minuto corpicino di mio fratello dimenarsi tra le mie braccia e sentii il suo pianto acuto trapanarmi le orecchie.
Dalla porta provennero dei forti rumori che invasero la stanza. Qualcuno gridò di aprire con voce profonda e furiosa. La paura crebbe. Quel grido era carico di odio, ed io ancora non sapevo cosa significasse realmente odiare.
La poca calma che avevo racimolato stava pian piano svanendo, e i miei occhi si appannarono improvvisamente. Le lacrime salirono ma io lottai per non farle scorrere. Sapevo che se avrei perso il controllo la mamma sarebbe andata nel panico, e come avevo sentito sussurrare prima, un solo piccolo dettaglio sbagliato avrebbe mandato tutto in rovina.
-Apri questa dannata porta Eveline!- sbraitò la voce al di là della porta. E allora capii. Capii chi fosse a urlare. Capii da chi stavamo scappando. E improvvisamente tutto fu più chiaro. Ma quando riuscii a metabolizzare appieno, mi si gelò il sangue nelle vene e mi paralizzai.

Mi poggiai al bidone della carta situato nel corridoio della scuola ma poi le ginocchia cedettero inesorabilmente. Mi rannicchiai contro la parete e iniziai a fare respiri profondi, ma l'aria pareva essersi prosciugata. Mi sentii morire, urlai forte, e poi tutto attorno a me divenne di nuovo buio e ancora una volta mi trovai nuovamente catapultata nel viale dei ricordi. Quei ricordi che con vani tentativi cercavo disperatamente di seppellire nelle viscere del subconscio.

La porta si spalancò e lui mi fissò minacciosamente. Strinsi più forte la presa su Alexander. Avanzò di un passo, ed io nonostante l'istinto irrefrenabile di arretrare e di mettermi in salvo, mi trovai lì paralizzata e inerme, con i muscoli incapaci di muoversi. Ero sola, inesorabilmente abbandonata a me stessa. Nell'oscurità di una stanzetta, dopo che le mie certezze erano crollate, e dopo che l'ultima parte di ciò che rimaneva del mio cuore si era frantumata. Avevo cercato con tutte le mie forze di trovare una spiegazione logica a tutto quello che avevo appena visto, ma non la trovai. E così mi arresi all'idea. Ma prima che potessi anche solo iniziare ad aggrapparmi ai ricordi di tutti i momenti felici che costeggiavano i miei sorrisi passati, per poter dimenticare un attimo la realtà e tornare ad essere felice, la consapevolezza di avere davanti un assassino armato mi fece rabbrividire.

Altri rumori.
Dei passi, sempre più forti, sempre più imminenti.

Sbarrai improvvisamente gli occhi. Il petto si alzava e si abbassava freneticamente, e una fitta lancinante mi perforava la testa come lame affilate.

-Stai bene?- era una voce roca, profonda, ma vellutata. Mi voltai piano e mi trovai davanti agli occhi un volto ormai decisamente troppo conosciuto. Notai dei piccoli spruzzi di lentiggini chiare in corrispondenza del naso. La mascella pronunciata gli conferiva un'aria dura, ma il sorriso caloroso che mi rivolsero le labbra rosse e carnose fece sparire ogni segno di freddezza dal suo volto. Poi incontrai i suoi occhi, e per l'ennesima volta mi tolsero il fiato. Erano azzurri come il mare, sembrava di nuotare negli abissi dell'oceano. Quelle iridi calamitarono il mio sguardo ed io mi aggrappai ad esse con tutte le forze che avevo. Se le si osservava attentamente si scrutavano le venature verdi che sfumavano il colore oceanico che avevano, e così sembravano un lago all'interno di una fitta foresta. L'acqua cristallina, rifletteva il verde degli alberi che si mescolava all'azzurro del cielo creando un equilibrio di perfezione. Ma un lago era tutt'altro che paragonabile alla visione di quegli occhi. Un lago è un luogo silenzioso, pacifico, quegli occhi invece celavano il dolore. E così mi accorsi ancora una volta del netto contrasto che c'era tra le iridi segnate dalla stanchezza di una lotta vinta dalla disperazione, dalla debolezza e dallo sprofondare nell'oblio, con il suo sorriso caloroso.

-Si sto bene.- bofonchiai scossa.
Mentii.
Senza pronunciare una parola, lui si accostò accanto alla parete e scivolò lungo il muro con la schiena che aderiva perfettamente alla superficie fredda e ruvida.
L'intonaco ormai vecchio era scrostato, ma lui non badò a quel dettaglio, e si sedette accanto a me, poi, come calamitata da una forza sovrumana, mi ritrovai stretta in una morsa ferrea. Il volto nascosto nel suo petto, le braccia piegate tra i nostri busti, le sue dita che percorrevano curve sinuose tra i miei capelli.
Mi sussurrò che sarebbe andato tutto bene, che anche se guardavo film scadenti, lui mi assicurava che sarebbe andato tutto bene.

Ma l'unica inesorabile e incontrastabile realtà, era che l'incubo era appena iniziato.

Di nuovo.

Cuore di TenebreWhere stories live. Discover now