8.) Ramanzine a prima mattina per colpa di un segnalibro (assurdo!)

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Quando rincasai l'orologio segnava l'una e quarantadue antimeridiano.

Il mio corpo era stremato dal freddo e dalle torture auto inflitte dagli incubi e dai pensieri masochisti su Jace, che mi avevano prosciugata, lasciandomi a marcire come una rosa appassita, nella penombra della mia angusta camera.

Decisi che era il momento di ricominciare. Era il momento di voltare pagina, di scrivere un nuovo capitolo della mia vita. Se avessi racimolato con cura quei frammenti di forza vacillante, forse sarei riuscita a dare un nuovo senso a quell'esistenza che per anni aveva gravitato attorno alle perdite e a quel baratro oscuro del dolore nel quale sprofondavo ogni secondo che passava, insieme agli incubi, ai ricordi.

Il mattino seguente spalancai gli occhi totalmente ignara di quanto tempo avessi concesso al mio corpo per riposare, ma al primo movimento mi convinsi che era decisamente inferiore alla quantità minima necessaria.

-Josephine posso entrare?- la voce soave e affettuosa di mia madre risuonò dall'altro capo della porta.
-Certo mamma, da quando devi chiedermelo?- risi flebilmente. Lei si sedette ai piedi del mio letto dopo aver attraversato la camera e aver scrutato con sguardo critico il disordine. Io risi flebilmente e lei alzò gli occhi al cielo con aria sconfitta.
La guardai. Scrutai smaniosa le iridi verdi uguali alle mie, erano vuote, spente, esauste. Scrutai il volto dolce, le rughe che iniziavano a mostrarsi sul suo viso, come sentieri che indicassero le strade giuste e sbagliate che aveva imboccato durante la sua vita.

-Come ti senti in merito a Jace?- chiese cauta. Io mi persi con lo sguardo nel vuoto, vagava nomade, cercando qualcosa a cui appigliarsi per pronunciare le parole giuste senza essere inondato dalle lacrime.

-Ho paura che l'incubo sia ricominciato.- mi limitai a dire. Una frase breve e coincisa, che racchiudeva tutte le mie ansie e le mie preoccupazioni, che mia madre, capì senza bisogno che gliele spiegassi.

Ancora udivo nella mia mente il frastuono generato dal proiettile che squarciava l'aria. Ancora ricordavo il sangue che macchiava la mia pelle tersa e i vestiti di Jace. Ancora rimembravo i suoi occhi inespressivi, le pupille eccessivamente dilatate mentre mi sussurrava di amarmi. I ricordi riaffiorarono, e fu doloroso. Dovetti appellarmi a tutte le forze che avevo per non lasciarmi trascinare dal mio oblio sul fondo senza ritorno del baratro del dolore.

-Josephine lo troveranno.- mormorò mia madre, riferendosi all'essere spregevole che aveva premuto il grilletto. La verità era che avevo incanalato tutte le forze per concentrarle sul dolore della perdita, e neanche per un istante mi ero soffermata sull'odio logorante e insormontabile che provavo per l'essere che aveva commesso quel crudele e meschino gesto nefasto. Un piccolo frammento della mia anima, non riusciva ad odiarlo, e sapevo, perché lo riconduceva a ciò che vidi sette anni prima nel sottoscala della mia casa a Washington. Quel ricordo mi aveva marchiata in maniera indissolubile, e tutto sarebbe stato riconducibile a quella notte, come una maledizione che mi avrebbe perseguitata a vita.

Quaranta minuti dopo ero pronta a uscire e ad affrontare un'altra giornata di scuola. Il campanello produsse un trillo assordante e fastidioso e mi precipitai a spalancare la porta. Beth si stanziava dinanzi a me con un sorriso caloroso e gli occhi ridenti. Indossava un maglione blu notte che le lasciava una spalla scoperta, e un jeans aderente che valorizzava il suo corpo, che ciecamente ancora non riusciva ad apprezzare.

Ci avviammo tra risate sommesse lungo il viale, finché non si arrestò bruscamente dinanzi a quella che, riconobbi essere, la panchina sulla quale mi ero fermata la notte precedente.
-Quello è il tuo segnalibro?- mi chiese indicando un pezzo di carta incastrato tra le sbarre della panchina.

Lo recuperai e quando mi voltai, lei mi scrutava con sguardo truce.
-Cosa ci faceva lì?- mi chiese con tono accusatorio.
Istintivamente cercai qualche scusa da rifilarle che potesse giustificare la presenza del segnalibro su una panchina.

-Sono ricominciati vero? Gli incubi, le fughe notturne... il tuo circolo vizioso.- mormorò calando gli occhi sull'asfalto.
Il mio circolo vizioso. La mia debolezza. Interpretò il mio silenzio come una conferma.

-Da quanto?- chiese poi cercando invano di tenere ferma la voce. Non meritava il dolore che provava nel vedermi crogiolarmi tra le sofferenze.
-Ieri è stata la prima volta dopo l'ultima anni fa.- ammisi.

-Sta volta era Jace?- chiese, e mi parve di udire un briciolo di speranza nel suo tono.
-No. Sempre Malcolm. È sempre lui.-

-Josephine sappiamo bene com'è finita l'ultima volta...- lasciò la frase sospesa in aria.
-Beth ero solo una bambina, avevo undici anni ed ero più vulnerabile.- tentai di giustificare.

-Facciamo tutti lo stesso errore. Cresciamo e ci sentiamo in dovere di fortificarci, di abbandonare le vecchie paure e di dimostrarci immuni al dolore di un tempo. Pensiamo di dover dimostrare al mondo che quando diventiamo grandi abbiamo la capacità di affrontare la tempesta, quando poco prima avevamo paura dei temporali. Non solo i bambini hanno paura dei mostri e del buio.- mi disse. Mi resi conto di quanta verità celassero quelle parole. Di come mi sentissi obbligata a comportarmi da persona forte con il passare degli anni.

"Non solo i bambini hanno paura dei mostri e del buio".
La sentivo. La paura dei mostri e del buio. La paura del mostro dentro di me, quella creatura che combattevo ogni giorno al calar della notte. Quella che sei era insediata nel mio cuore prendendone le sembianze e auto infliggendosi masochiste torture. La paura del buio della mia anima. Dell'oscurità che potesse sopraffarla.

-Crescere non significa dover smettere di avere paura, significa esplorarla più a fondo, doverla affrontare, trovarsi faccia a faccia con i propri demoni.- continuò.

-Ho un'idea.- strillò poi con un moto di eccitazione che le balenò negli occhi.
-Stasera, vieni a dormire da me, non accetto obiezioni. Serata tra ragazze e niente fughe notturne.- la voce stridula salì di almeno tre decibel.

-Devo fermarti prima che tu incontri un'altro Damian.- mormorò poi rabbuiandosi.
-A proposito di questo argomento... è tornato a Manhattan.- sospirai.

-Stai lontana da lui sta volta Josephine, o ti farà ancora più male di come non abbia già fatto in passato.- i tentativi di camuffare lo sgomento furono completamente vani, riguardo al furore, neanche tentò di nasconderlo. Lo odiava, di quell'odio e le persone buone, quelle che dentro hanno la luce, provano solo per l'irrecuperabile oblio delle persone cattive.

Cuore di TenebreWhere stories live. Discover now