24.) Conversazioni profonde fuori da un ospedale (Allerta tensione sessuale)

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Le pareti bianche erano scrostate e in parte, ricoperte da consigli pratici per fronteggiare problemi di salute. Su ognuna di esse vi erano disegnate persone sorridenti, un grande paradosso, dati gli animi lugubri delle persone trepidanti accomodate sulle fredde sedie della sala d'attesa dell'ospedale.

Un silenzio assordante aleggiava nell'aria pesante. Nathan aveva lo sguardo fisso sul pavimento, come se improvvisamente, le fantasie sulle mattonelle, fossero lo spettacolo più coinvolgente al mondo. Suo padre, che ci aveva raggiunti poco dopo, aveva il volto imperlato di sudore, e le mani tremanti, intrecciate tra loro al fine di placare quel movimento generato dalla tensione. Beth accanto a me, mi teneva la mano, e ogni tanto stritolava con forza le mie dita per silenziare i singhiozzi.

Dopo quelli che parvero lunghi anni di attesa logorante, un medico di mezza età fece il suo ingresso nella sala, intersecando i suoi occhi in quelli glaciali del padre di Nathan.
Aveva un'aria cupa, tetra, lugubre.
-Mi dispiace.- fu l'unico sussurro che riuscii ad udire, prima che la mia mente prendesse a vagare senza meta, disturbata da un fischio acuto che ovattava i suoni tutt'intorno.
L'uomo disse altro, ma il mio cervello aveva totalmente, completamente, perso la capacità di ascoltare e carpire informazioni di senso compiuto. Tutto ciò che pullulava la mia mente, era il ricordo della dolce Megan, del suo sorriso splendente e di quella sua aria impavida e fiera di se che tanto stimavo.

Mi alzai di soprassalto, mollando la mano di Beth e dirigendomi a passo svelto verso l'uscita. Tenevo lo sguardo basso sulle mie scarpe che si muovevano rapide, quando andai a sbattere contro un uomo.

Con mio sommo stupore notai che l'uomo non era altri che Blake Blackwell, e che era affiancato da niente meno che Ethan, Caroline e Abigail.
-Siamo venuti appena abbiamo saputo.- disse subito quest'ultima.
-Come...- presi a chiedere io, ma venni interrotta dalla voce ferma di Blake.
-Manhattan è una città parlante.- si limitò a dire. La stessa frase che avevo formulato io dopo la morte di Jace. Mi limitai ad annuire.
-Lei, Megan...- Caroline lasciò la frase in sospeso interpellandomi. Io scossi la testa con fare più lugubre di quanto avessi progettato. Le mie barriere stavano cedendo. Ero sempre più vulnerabile.

-Andiamo da lui.- mormorò Amber incupendosi.
-Sala d'attesa numero nove, è con Beth e il padre.- indicai. E loro mi sorpassarono. Damian non c'era, le mie aspettative sulla sua integrazione erano basse, quasi infime, sapevo che lui era un lupo solitario, che lui era nato per vagabondare come un carnefice nelle tenebre della solitudine, era nella sua natura, farsi del male, e curarsi le ferite da solo. Autodistruggersi, e contemporaneamente, autoalimentarsi.

-Damian ci aspetta in auto.- Abigail diede voce ai miei pensieri prima di sparire dietro il corridoio con gli altri. Quasi sorpresa da quella sentenza, mi resi conto che sul mio volto, era comparso un lieve accenno ad un sorriso, impossibile da reprimere.

Mi parai davanti all'auto e bussai ripetutamente il finestrino. Damian sobbalzò e aprì la portiera.
-Non farmi la predica.- fu la prima cosa che disse.
-Non avevo intenzione di farti alcuna predica.- sbottai io.
-Non sono sceso perché sappiamo entrambi che non sono chissà quale grande conforto in queste situazioni. Avevo paura di ferirlo più di quanto già non fosse.- si giustificò.
-È una bella cosa.- mormorai io incrociando le gambe sul sedile, guadagnandomi un'occhiata critica, che ignorai beandomi della morbidezza del sedile.

-Non ti chiedo come sta. Te l'ho letto negli occhi. Mi dispiace.- fu tutto ciò che disse. Trascorsero attimi interminabili prima che rompesse di nuovo il silenzio.
-Josephine hai mai pensato a noi due in questi ultimi sei anni?- chiese fissando l'orizzonte oltre il parabrezza.

-Durante i primi due anni ogni volta che uscivo da casa facevo il giro in lungo per passare accanto al palazzo in cui abitavi prima con tuo padre, perché volevo che mi vedessi. Desideravo che vedessi quanto ero cresciuta, volevo che un minimo di quella poca bellezza che vedevo in me ti colpisse. Desideravo soltanto incontrati per vederti un'ultima volta e dimenticarti definitivamente. Volevo solo che tu mi guardassi un'ultima volta, ma non ti ho mai visto.- dissi scrutando smaniosamente il vuoto.

-Ti sei fatta passare tutti quei complessi sull'introversione e sulla timidezza a quanto pare...-
-E tu hai aggiornato il tuo vocabolario.-

-È finita?- chiese poi.
-Cosa?-
-Noi.- sentii una miriade di brividi percorreremi la pelle febbricitante.
-Se due persone si appartengono troveranno sempre il modo di tornare.- dissi soltanto desiderando improvvisamente di sparire.

Lui tacque.
-Forse non abbiamo funzionato perché eravamo entrambi rotti.- mormorai.
-Rotti?- ripetè lui come fosse una parola priva di senso.
-Rotti da quel rapporto forte e indelebile che avevamo. Rotti perché nessuno dei due era pronto davvero a caricarsi sulle spalle quei fardelli. Rotti perché è successo tutto troppo in fretta. Rotti perché eravamo solo bambini. Rotti perché il destino ha deciso di dividerci all'improvviso. Ma nonostante tutto, nonostante il destino, il tempo perso, le parole non dette, nonostante le crepe e quel nostro essere maledettamente rotti, siamo ancora qui. Siamo qui perché non riusciamo a smettere, perché c'è qualcosa che ci lega. Ed è qualcosa di forte. Forse troppo. È qualcosa di struggente, di logorante. Ma intenso. Distruttivo.- calò il silenzio.

-Per me non è mai finita. Noi non siamo mai finiti.- mormorò. Ed io sentii un vuoto dentro. Un vuoto incolmabile. Sentivo quella voragine che lui aveva aperto, lacerarsi di nuovo. Sentivo le difese crollare.
-Non finiremo mai forse.- ammisi.
-È tutto così...- lasciò la frase in sospeso, ed io la completai, come lui completava me.
-Privo di senso.- privo di logica, tremendamente irrazionale e pericoloso. Doloroso.
-Neanche siamo stati insieme.- rise.
-L'amore non ha bisogno di etichette.- mi autocitai.
-È amore?- chiese lui poi, ed io avvertii nuovamente quel distruttivo vuoto.
-Non lo so.- ammisi vulnerabile.
-Tempo fa lo avresti negato senza pensarci su.- mi fece notare lui, e ancora una volta mi resi conto di quante cose conoscesse di me, di quanto una parte di me gli appartenesse.
-Tempo fa ero meno consapevole delle mie ombre.- mi giustificai.
-Mi fai impazzire quando dici queste cose profonde.- sbottò lui per niente irritato. Sapevo che c'erano degli aspetti di me che lo attraevano, sapevo di avere un briciolo di potere sulla sua contorta e oscura mente, e sapevo come usarlo per non ferirlo, ma per illuminarlo.

-Lo so. Per questo lo faccio. È divertente.-
-Sei una stronza.-
-Si lo so. Me lo hai detto tante volte.-
-Sei impossibile.-
-Puoi dirlo forte.-

-Perché adesso?- chiesi dopo un po'.
-Cosa?-
-Questa conversazione. Questa cosa che c'è tra noi. Perché ora?-
-Perché mi sono reso conto di quanto velocemente la vita possa cambiare. E non ho intenzione di perderti di nuovo prima che accada.-

-Sei cambiato.- gli feci notare.
-Sono stato ferito.- mi rammendò lui, e le sentii. Tutte le cicatrici che solcavano la sua anima. Sentii la sua paura di cadere nel baratro, di affondare più di quanto non stesse già facendo.
Perché l'unica e incontrastabile realtà, è celata nel fatto che le persone che appaiono forti e senza cuore, stronze, senz'anima e rimorsi, non sono altro che persone che vestono le proprie cicatrici sotto forma di armatura. Persone che sono state scaraventate negli abissi del buio, e hanno iniziato ad avere paura della luce.

-E ora come stai?- gli chiesi sincera. Sentivo quel bisogno viscerale e precario di saperlo al sicuro.
-Sai che non so mentirti.- bofonchiò lui.
-Almeno ti sei rassegnato al fatto che io sappia leggerti dentro.- era vero.
-Davvero come stai adesso?- gli chiesi poi.
-Hai mai provato la sensazione di desiderare una cosa ardentemente, come fosse una necessità primaria, ma al contempo avere la consapevolezza di non meritarla?- era tormentato, affranto.
-Questa cosa è una persona.- risposi soltanto.
-Si.- affermò lui.
-Non era una domanda era un'affermazione.- sentenziai io senza staccare gli occhi dal parabrezza, a pochi centimetri da lui.
-Oh.- sospirò lui sconfitto.
-È la ragazza che ti ha ridotto così?- gli chiesi.
-Non più.- mormorò.
-Ma allora...- lasciai la frase sospesa a metà e mi voltai a guardarlo. Lui incastrò i suoi occhi neri nei miei. Le sue iridi nere come la pece e il carbone. Il volto duro abbandonato in un'espressione sconfortata. Mi scrutò smaniosamente, ed io mi sentii spogliata, come fossi sotto dei riflettori incandescenti.

Dei tonfi interruppero quel contatto visivo. mi voltai verso il finestrino spalancato per metà e vidi i miei amici attendere al di là del finestrino semiaperto.
-Andiamo a casa di Abigail.- disse Ethan con voce piatta.
-Abbiamo interrotto qualcosa?- chiese la padrona sopracitata. Io e Damian non pronunciammo neanche una parola, rimanemmo soltanto immersi in quel silenzio pesante che si era creato.
-Lo prenderemo come un no.- decise Beth guardandomi preoccupata.
Damian accanto a me mise in moto e sfrecciò tra le luci della città.

Cuore di TenebreWhere stories live. Discover now